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Philip Glass e Lynn Davis a Venezia: una conversazione e un concerto a La Fenice
Una sera con Philip Glass e Lynn Davis a Venezia per parlare di arte e musica, di amicizia. E’ quanto è successo il 12/12/12, tutto attorno a Piazza San Marco: una mostra fotografica della famosa fotografa americana è infatti ospitata al Museo Archeologico Nazionale (resterà aperta fino al 13 gennaio prossimo), in mezzo alle opere della collezione storica. La mostra è una selezione della più vasta ricerca dell’artista su uno dei suoi ultimi soggetti: le tombe ed i sacrari antichi.
Lynn Davis ci ha accolti all’ingresso del Teatro La Fenice e ci ha raccontato che desiderava invitare Glass a suonare nelle bellissime gallerie ubicate al piano nobile del museo Archeologico (di proprietà statale) ma non deve essere stato facile. E, infatti, il concerto ha avuto luogo al massimo Veneziano, la splendida La Fenice, in collaborazione con la omonima Fondazione musicale. Una sola, speciale data (sold out) che Glass ha deciso, complice la Davis, di impreziosire con un talk e un cocktail prima della performance (ad inviti, in collaborazione con la galleria dell’artista, la Karsten Greve di Saint Moritz e Parigi).
“Minimalista è una parola che mi sta stretta perché non significa assolutamente niente in relazione alla mia musica di oggi, preferisco definirmi un modernista: vengo da una generazione, preceduta da grandi maestri, che conta artisti del calibro di Jasper Johns, Rauschenberg per citarne alcuni. Che sia pittura, fotografia come nel caso di Lynn, una partitura come nel mio – quello che mi accomuna a loro è un gesto artistico che si completa necessariamente con la presenza dell’audience. La mia vuole essere un’arte auto-didattica, l’ascoltatore, elemento cruciale ed imprescindibile posto tra me e l’opera, ne completa e ne conclude il significato. Poi l’opera è anche entertainment, ma l’arte e questo tipo di business sono due cose differenti, dovremmo parlarne per ore. In ogni caso la nostra arte – quella di Lynn e mia – non è un’arte politica, di propaganda dove l’artista indica necessariamente allo spettatore il significato e le proiezioni dell’opera.
“Noi siamo figli della meditazione ma anche della logica, conclude Lynn, e per noi conta moltissimo il processo con il quale giungiamo alla conclusione. La creazione è finemente meditata per lasciare al nostro pubblico sempre l’ultima parola ”.
In una cornice magica come le sale nobili del Teatro La Fenice, ascoltare Philip Glass conversare con una delle sue migliori amiche, rende perfettamente le misure di Venezia. Piccolo, nascosto, a tratti selvaggio ed inospitale, non è solo la bellezza a fare di esso il luogo più desiderabile al mondo. Anche quando la Biennale è chiusa, anche nel periodo dell’anno meno hype (tra novembre e febbraio), Venezia è marcatamente più ricca e più internazionale (non solo più turistica) di altre città italiane, di sicuro più di Milano: è la scala prepotente di un borgo fatato che s’impone, con i suoi ritmi e le sue follie, da secoli.
Glass non tornava a La Fenice dal 1976 quando ha eseguito (in collaborazione con Robert Wilson e la Biennale) la sua opera forse più seminale (Einstein on the Beach). La prima cosa che ha dichiarato al direttore artistico Fortunato Ortombina (classe 1960, dinamico ed aperto, ha lavorato a La Scala e al San Carlo prima di atterrare, felice, a Venezia) è quella che ogni padrone di casa vorrebbe ascoltare da grandi compositori che sono anche musicisti di rango: l’acustica è migliorata dopo la ricostruzione del teatro distrutto dall’incendio nel 1996.
Davis ha raccontato che spesso ospita Glass a casa sua per piccoli concerti (suo marito, scrittore, ha anche collaborato per il musicista ed i tre sono molto amici, dato che lui e Glass si conoscono da quando erano teenager).
Ho chiesto al maestro che importanza avessero per lui le concert hall, considerate non solo per le sue qualità performative, acustica in primis, ma anche per il pubblico che le anima, il milieu delle città. E gli ho ricordato un memorabile concerto che tenne all’Anfiteatro Flavio (una replica in scala minore del Colosseo, a Pozzuoli) per tre giorni circa 20 anni fa in collaborazione con il Teatro San Carlo di Napoli. Lui mi ha invece parlato di architetture. E mi ha detto che non dimentica mai le prove open air nelle arene greche e romane (ovviamente, scherza, solo d’estate!): dovunque ubicate, lui aveva la sensazione di lavorare sempre nello stesso teatro data la magia di questi topos “tecnici”, unica ed inconfondibile, che si tratti di Roma, Napoli, una città siciliana o una greca.
Cosa accomuna Glass e Davis, a parte una storia umana di vicinanza e fecondità creativa? Forse l’amore ossessivo per la poetica del frammento, incessante e mai sopita attraverso tutte le epoche creative che hanno attraversato (Glass ha 75 anni e Davis è leggermente più giovane di lui). Vedere Glass con un Iphone sconvolge, se consideriamo che ha raggiunto la fama nel 1960/70 e se consideriamo che da studente ha tradotto, per mantenersi a Parigi mentre si perfezionava in musica, le partiture di Ravi Shankar (un grande omaggio al suo maestro l’ha fatto nel modo più commovente che conosce: in teatro suonando un bis fuori-programma).
La poetica del frammento si scopre guardando come lei compone i suoi scatti e come lui le sue opere. Lei torna spesso nei luoghi e affida le sue indagini a serie monografiche in cui compare sempre lo stesso soggetto e scompare l’autore, del tutto (come tiene a precisare lei stessa): nessun condizionamento da affidare al visitatore, unico re della creazione culturale che l’artista vuole affidare alle istituzioni che di volta in volta, nel mondo, la ospitano.
Lui, del pari, compone spesso poemi in musica in cui il fraseggio, il motivo, la partitura, restano aperti ad un completamento interiore senza costrizioni e senza influenze (dettate dall’autore). E’ bizzarro ma è così, che sia una partitura per la danza o per il teatro, per il cinema o per la radio (non vi è autore più noto di Glass e più fecondo di lui!).
Circa un’ora e mezza di musica più dieci minuti di bis hanno arricchito questo incontro memorabile. “An evening of chamber music” ha visto Glass suonare sue sinfonie sia per pianoforte solo (ha iniziato con la celebre Mad Rush che compose per Radio Bremen) sia per piano e violino, in questo caso il giovane Tim Fain. Il loro rapporto è nato, ha spiegato Glass, dalla richiesta del primo di una composizione per violino. Quando Glass l’ha creata e l’ha poi visto suonare con così tanta dedizione, ha cementato un sodalizio. Così per esempio con Chaconne (partita per violino solo): una rapsodia per viandanti che fa a pezzi la musica e le melodie per corde. Composto di sette movimenti, solo due sono stati scelti per la serata speciale a La Fenice (il primo era l’ouverture): organici e semantici (Glass ha spiegato che si tratta comunque di un pezzo ispirato alla musica per clavicembalo e violino solo di Bach), dotati di acuti strazianti, il secondo appare più scomposto e si quieta solo poco prima di affrontare paragrafi più muscolari. Chaconne sembra portare a La Fenice echi di sitar e di vecchi fraseggi belle epoque e fa pensare all’influenza di antenati illustri. Questa composizione è arricchita da sospiri in forma di pausa ogni volta che si appresta a cambiare tono e, dall’acuto, virare verso il basso.
Glass al piano solo ci regala Methamorfosis 4 e 5, uno suo best of (è il soundtrack de La Sottile Linea Blu, film di Errol Morris). E Wichita Vortex Sutra un pezzo memorabile datato 1990 in cui il maestro suona una sua composizione arricchita dalla voce registrata di Allen Ginsberg (che aveva regalato a Glass un poema che parla di viaggio e di Kansas).
Due i brani in cui Glass e Fain suonano insieme: tre brevi pezzi delle musiche di scena di The Screens (pièce di Jean Genet ambientata in Algeria, riscritta e ripresentata con le musiche di Glass nel 1989: il maestro ha chiesto aiuto a Foday Musa Suso, mandingo dei griot dell’Africa occidentale, co-autore di questa composizione).
L’altro, magistrale, è Pendulum che chiude il programma ufficiale della serata speciale. Si tratta di una composizione nata per celebrare il 40mo anniversario della American Civil Liberty (2010). Molto ispirato e brillante, un suono pieno impreziosito da pochi acuti brillanti, il pezzo è stato dedicato da un commosso Glass al suo maestro Ravi. Nell’introdurre il pezzo, Glass ha detto che aveva sentito Ravi pochi giorni prima che morisse. Che Glass abbia voluto, con questa toccante dedica in presenza del giovanissimo violinista sul palco, lasciare in qualche modo un endorsement ad un giovane erede?
Due i bis, tra cui un pezzo straordinario di Einstein on The Beach oltre 37 anni dopo dalla sua prima esecuzione a La Fenice. E un terzo, non previsto e dovuto al grande applauso che il pubblico gli ha dedicato, ancora con gli echi della dedica a Ravi nel cuore: la sua unica, deliziosa, Sinfonia n. 10. In questo notissimo pezzo, Glass sembra un ventriloquo, l’uomo dai mille movimenti e dalle fughe concentriche che si auto-citano fino a formare un ritmo esiziale, impossibile da evadere. Dal madrigale all’algido fraseggio schubertiano, Glass shakera questo ed altro grazie ad una visione: quella di un uomo dell’oggi con un’eredità difficile a candeggiarsi. Indelebile. Per sempre.