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Poesia, performance e scultura dello spazio dominano dOCUMENTA 13 a Kassel, insieme alle biografie
Caotica, spunti deliziosi, atmosfere più interessanti del contenuto. Una mostra assai blockbuster
Kassel, in mezzo alle bordure coltivate della Germania centrale, aspetta ogni cinque anni di trasformarsi in principessa, delle arti. La popolazione lo sente, è coinvolta (non solo per affittare ogni angolo di casa), soprattutto è fiera.
Da sessantacinque anni Kassel è fiera di attendere l’evento che la trasforma, la anima fino a sera, talvolta fino a notte altrimenti rimarrebbe quel che è una tranquilla, finanche noiosa cittadina universitaria. Per 100 giorni, la tredicesima edizione è diretta da Carolyn Christov-Bakargiev: oltre al trecentesco, vastissimo parco di Karlsaue, si volge tra la vecchia e sottoutilizzata stazione ferroviaria - inclusi i suoi studi di registrazione, Offner Kanal dove ogni notte poeti e scrittori offrono reading, o gli anfratti dei vecchi hangar di lavoro - il cinema Bali e lo splendido Gloria (fino a poco tempo fa chiuso), tutti i musei cittadini – dal Fridericianum al più turistico Grimm Museum, fino al Mausoleo - e poi luoghi lontani come le montagne canadesi, l’Afghanistan e l’Egitto.
Se è vero che la Bakargiev aveva promesso di non voler primeggiare come curatore sugli artisti, ma essere ricordata come un controllore del traffico, direi che non ha saputo trattenersi: qui e lì statements, foto, un paio di “opere” inserite come tali (cioè con courtesy, posizione in mappa e in catalogo) la sustanziano. Mentre lei pianta dei giovani arbusti in memoria dell’olocausto nel parco e li inserisce nel percorso, Giuseppe Penone ha creato lì di presso un albero permanente in bronzo. Regge un masso con la levità di chi racconta la storia, riassumendola tutta in un solo memento.
E’ la mia prima volta a Kassel e, colpita dall’aura sacrale di cui tanti mi riferivano dalle precedenti edizioni, mi sono trovata a girovagare in mezzo a una mostra blockbuster la cui cifra espressiva era da un lato un Ryan Gander in ogni location espositiva, dall’altro lavori incomprensibili e scoppiati come quello di Jeronimo Voss all’Orangerie, accostato invece a pezzi (e pre-esistenze) pieni di senso. Non ho apprezzato le tante casine tutte uguali (o molto simili) nel memorabile parco delle sculture (costruite grazie ad uno sponsor) che rendevano meno sorprendente l’effetto “differenza” tra gli artisti che hanno dovuto scegliere quella forma/contenitore per i loro progetti. In generale, dOCUMENTA mi è parsa davvero over-popolata di spettatori (soprattutto tedeschi): anche in un luogo così grande quale una stazione ferroviaria. Spesso era impossibile vedere bene, o vedere affatto, alcuni lavori (40 minuti di coda per il film di William Kentridge dopo averne fatti 25 per un’opera accanto). Sconcerto, disappunto, a tratti interrogativi soverchianti sul perché sia stata realizzata così. Al secondo giorno stavo per arrendermi, invece….
Tino Sehgal e Theaster Gates: il primo ha studiato economia e danza, il secondo religione e pianificazione urbana tra il vecchio e il nuovo mondo. Dopo tanto peregrinare per ogni sito di dOCUMENTA (13), ho dato un senso alla mia visita e all’intero viaggio.
Ben messi uno accanto all’altro, il primo fa danzare e parlare i suoi performer al buio pesto e il secondo decostruisce e ricostruisce un luogo americano utilizzandone i rivestimenti in legno che diventano cose d’uso quotidiano in un edificio tedesco (letti, dondoli, comodini, strani mobili per case da performance). E soprattutto crea un superbo stage permanente (per ballate, concerti di jazz, lezioni di yoga e cucina, passando per DIY di gran fattura).
All’interno della stanza buia ai piedi di un hotel, abituandoti gradatamente all’oscurità, ti accorgi che i performer di Tino si tramutano in pubblico, poi ricominciano ad essere pezzo di visione e di lezione (di vita). Che il pubblico dell’arte sia cieco e autoreferenziale?
All’interno della luminosa e tentacolare Casa degli Ugonotti, l’edificio-fucina di Gates, allo stesso modo fluisci e rifluisci, senza ruolo o prepotenza, leggendo ogni dove di congegni, idee ed esperienze per una nuova struttura sociale. Forse la curatrice si riferiva a Gates quando diceva di essere interessata a mettere in scena il linguaggio delle cose, io non ne ho visti altri di tentativi così mirabolanti.
Chiara Fumai, l’italiana più outsider tra quelli invitati a Kassel, è una polistrumentista delle vocazioni, potremmo dire: educata come architetto, ha fatto a lungo la dj e trafficato con musica e suoni. Solo recentemente ha scelto un solo ruolo/etichetta, quella che può voler dire tutto o niente, cioè l’artista. Mette in scena sé stessa trasformata: in questo caso in una strega che recita una pièce (Shut up! Actually talk) a tratti sadica a tratti ironica. E’ un j’accuse della prospettiva femminista che nasce astutamente da un testo altrui – addirittura da una lettera/pamphlet di Carla Lonzi, filosofa italiana fondatrice di Rivolta Femminile - per fare un mock-up della differenza “uguale”, dagli anni ’70 ad oggi e dice molto di più dell’Italia (ed, in fondo, di come si nasce artisti e di cosa si crea se si vive in questo paese e per questo paese) rispetto a quanto fatto da altri, come la Favaretto ad esempio.
Succede dal giovedì al sabato durante tutta dOCUMENTA, senza controfigura o attore (la domenica la performance lascia il posto ad un altro personaggio sempre parte dell’installazione di Fumai): l’artista ha personalizzato una delle casette dello sponsor nel parco di Karlsaue, dove ha disseminato di tracce non evanescenti la sua tensione verso una dimensione più agita della pessima storia recente italiana. Non c’è solo maniera in Fumai, anzi non ve ne è per nulla: Fumai non fa altro che fare un’attentissima e colta costruzione della scena, denotando una filologia estrema verso le fonti. La strada che la sua giovane arte sta forse trovando è scultura di corpo e di situazione. A cui aggiunge un incredibile coraggio, l’estrema esplorazione, fino al saccheggio dei propri limiti (l’artista ha performato anche sul tetto del Fridericianum in un diverso programma). Anche Rossella Biscotti (Neue Galerie) si cimenta con brani importanti dell’Italia post fascista ma – oltre a farlo con una controfigura – affonda tutto il suo fare performance in un copione documentarista (già riproposto in tante opere) ed incastra l’esperienza quasi come si trattasse di un canvas. Con Fumai pesano ancora una volta i saperi messi da parte nella vita di prima, l’arte di sé stessi.
Dopo il peso della biografia e della performance (quasi tutti i progetti in mostra sono anche performativi), Anna Maria Maiolino (al parco di Karlsaue), introduce il terzo tema che mi è parso pesare dentro questa dOCUMENTA: la scultura-spazio, che domina ex aequo con il fare poesia. In Here&There l’artista (le cui origini sono calabre anche se ha studiato a Caracas per poi stabilirsi in Brasile) riempie, in diversi modi (anche con l’assenza) una casa sul limitare del parco. Maggiormente lo fa con argilla modellata in tanti pezzi ordinati che ricoprono ogni momento, anche brani di passaggio, delle stanze - tranne il basement dove scorre una poesia ed un’installazione sonora (la poesia è pubblicata nei 100 notebook che costituiscono il catalogo principale di quest’edizione del festival tedesco). La geometria ripetitiva dei modellini in creta (oggetti senza scopo, tutti uguali e solidali, sistemati in gruppi) si trova a scolpire lo spazio, e quindi il tempo, senza fatica e senza timore di restare puro astrattismo.
Succede anche, con meno abbondanza di segni ripetuti, con Rosemarie Trockel (nel parco di Karlsaue), dove una casetta riassume alcuni progetti di lavori (con immagini fotografiche). Dove non vi è tappezzeria d’immagini, vi sono due grandi pareti di vetro che danno su visioni laterali del parco. Sebbene siano cieche, donano una prospettiva spaziale unica e potente, ancora una volta una scultura immanente e coinvolgente dello spazio, in questo caso meno solido e tridimensionale di quello della Maiolino e più esperienziale.
Joan Jonas costruisce un window display dei suoi progetti recenti. La video artista interessa perché la sua casetta nel parco di Karlsaue è addizionata di un giardino e di uno spazio di buffer simmetrici all’ossatura del parco. Una sorta di puzzle geometrico che riordina, come un bugiardino, tutte le doti estetiche, e funzionali, del luogo.
All’Ottoneum, il museo botanico e di storia naturale della città, AND AND AND costruisce un giardino degli aromi da infuso e serve tisane che mixano allegramente rosa e salvia od ogni altra libera associazione di piante e fiori. Gli aromi vengono, riferisce Lala, da un contadino guru della cittadina che li ha assistiti nel processo partecipativo di creare un’enciclopedia delle proprietà e degli odori. Una sorta di prologo a Claire Pentecost, la cui opera tra quelle all’interno, cerca di creare una geografia della proprietà che ha come unità di misura i semi e le zolle trasformate in lingotti.
La caccia al tesoro di Mario Garcia Torres (Fridericianum) irrompe nella iconoclastia boettiana (a cui è dedicata una sala, ma la storia viene da lontano: Boetti doveva essere già presente ad una passata Documenta…): un lavoro documentativo sulla ricerca dell’hotel che l’artista tenne per tanti anni a Kabul, quasi una città d’elezione a parte Torino e poi Roma. Questo lavoro si sposa bene a quello di Kader Attia, la cui temperatura delle stanze è infernale. Una monumentale biblioteca di statue e libri per parlare dell’incolmabile vuoto feroce tra Sud e Nord del mondo, spesso riempito da violenza o predazione o tutte e due. E a quello di Michael Rakowitz che ha studiato i percorsi del male di certo ovest a certo est (i bombardamenti a Kabul sono l’origine di un lavoro di scultura con artisti locali per creare copie di libri distrutti in travertino di Baryian, esposte insieme a frammenti di preziose statue bombardate).
L’unico spazio originale al Fridericianum è la Rotonda del museo, che ospita un mix&match audace di generi ed epoche: antichi reperti (come le Bactrian Princesses, statuine del II a.c. provenienti dall’Asia Centrale) insieme con reportage di Lee Miller ed altre sculture. E video arte: pastoso e lezioso, tuttavia bello Sloshed Ballot &Anonymous Loan, 2011, della ventinovenne Tamara Henderson; un footage, tragico esperimento documentativo delle rivolte egiziane ad opera del defunto Ahmed Basiony (fatto con telecamera sui propri passi!) che ha già rappresentato l’Egitto alla Biennale di Venezia.
Una parola a parte su Tue Greenfort, sia agente della curatrice che artista in mostra. Ha creato e compilato con la partecipazione eterogenea di studiosi, artisti e poeti, la The Wordly House alla fine del parco (si tratta di una vecchia costruzione pre-esistente e non delle casette in legno costruite ex-novo per gli altri artisti).
Forse perché wordly è una parola cara alla curatrice-nomoteta, fatto sta che questa opera-luogo è quasi la summa di tutta la mostra. Caotica, spunti deliziosi, atmosfere più interessanti del contenuto. Una piccola casa-palafitta con un menu video delle performance più famose nella storia dell’arte, una biblioteca sui-generis, un luogo deputato alla piacevole permanenza, quanto al più al lungo possibile, ispirato agli scritti di Donna Haraway sull’evoluzione della multi-specie.
Mi sarebbe piaciuto sapere quale degli artisti ha inserito nei dTOURS da lui o lei guidati alcune delle opere più divertenti e al di fuori delle categorie secondo me più pressanti e presenti (come performance e poesia, spazio-scultura e programma): quella di Fiona Hall (un mirabolante, intimo e commovente sacrario di una ballerina di burlesque, incluse le sue ceneri), quella di Susan Hiller (Die Gendanken sind frei: 100 songs for 100 days of Documenta, un grande juke box con le cento canzoni che da parte a parte del mondo hanno cantato la rivoluzione, presente alla Neue Galerie e anche in vari punti del parco, ma solo alla Neue accompagnato dal libro che ne presenta tutti i testi), quella di Marco Lutyens (Hypnotic show con una serie di ipnosi collettive in una Reflection Room fatta di due case sovrapposte senza il pavimento dell’una e il soffitto dell’altra) al parco; quella di Jimmie Durham in una delle serre inutilizzate. Ed il Sanatorium di Pedro Reyes (già realizzato a New York nel 2011 a cura di David Van Der Leer) dove farsi curare su prenotazione per le più varie esigenze, fino ad una gustosa, è il caso di dirlo, terapia di coppia. Infine Allora&Calzadilla al bunker: un concerto per flauto solo (ricavato da un osso preistorico) che come unico ascoltatore ha un grande rapace.