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Basilea e oltre: temi primari tra arte, teatro, design e collezioni
data: 17-06-2015
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Intervista a Nicola Toffolini
Inventore di mondidata: 24-04-2011
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Donne senza uomini.
Installazione multimediale di Shirin Neshatdata: 01-03-2011
La cultura d'impresa. Come si racconta oggi
Al netto di grandi tradizioni familiari, di tipi di business e di ampiezza dei mercati, al netto di regole scritte (e non scritte) di governance, la cultura d’impresa è influenzata dalle latitudini e dal modo di interagire con i propri portatori di interesse, ça va sans dire.
In Europa una materia non secondaria - quella della valorizzazione della cultura d’impresa - è lasciata quasi esclusivamente a libere associazioni (d’impresa) e di categoria che si occupano su base volontaria di verificare le pratiche più correnti, di premiare le eccellenze e di istituire, spesso, momenti di approfondimento e pubblicazioni.
I settori imprenditoriali in cui sono presenti maggiormente i musei d’impresa anche fuori Europa - la moda, l’agro-alimentare e l’automotive - spesso danno vita a collezioni permanenti che rappresentano non solo un archivio d’azienda ma anche - e forse soprattutto - una propulsione nuova del rapporto tra marca e consumatore/fan.
Non mancano esperienze in altri campi, come ad esempio il design soprattutto quando si lega ad un distretto produttivo (per tornare in Italia, dalla caffettiera di Omegna alla sedia del Triveneto) ma l’Italia non offre esperienze ‘spurie’ che raggruppano eccellenze in diversi settori e non solo un’azienda ed i suoi prodotti iconici.
Esiste davvero la necessità di creare sempre e comunque un museo d’impresa per raccontare la propria cultura e il proprio lato ‘non profit’ che quasi sempre deve trovare posto accanto al primo in un’ideale rappresentazione del proprio perimetro?
No, tanto più quando (sembra un ossimoro ma non lo è) un’impresa ha un particolare radicamento su un territorio o non lo ha affatto o quando, al di là di ogni ragionevole ‘rappresentazione’ della sua storia e della sua cultura, essa starebbe stretta ad un solo territorio e in una forma ‘cristallizzata’ tipica dell’exhibit.
Spesso - e non a caso! - la forma del festival o della mostra itinerante è la migliore per consolidare una visibilità della propria storia e cultura d’impresa e modellarla ad ogni latitudine in cui è presente o sarà presente.
Una mostra temporanea ha soprattutto la versatilità di essere ambientata dove è più urgente o cogente per lo sviluppo della stessa relazione che si vuole coltivare con il museo: con portatori di interesse e clienti/fan, ma perché no anche con i lavoratori stessi o i franchiser, i fornitori, i sindacati e le autorità del luogo.
Prendiamo tre esempi: due dell’area food/trasporti e uno dell’arte.
BaxterStorey è un player recente ma di cospicue dimensioni, si occupa di catering per altri business e per l’industria, è di marca britannica ma registra una rapida espansione in Europa con attenzione al territorio e ai territori, con impegni cospicui nella formazione delle classi di lavoro in ogni settore di sua competenza (due le accademie in-house, Chef’s Academy e Barista Academy ma spesso formano alla cultura del cibo e dell’agricoltura consapevoli anche studenti di scuole medie e inferiori).
Distribuiscono il loro impegno comunicativo equamente su iniziative totalmente charity e iniziative corporate.
Una delle ultime mostre che hanno promosso come main sponsor è forse la migliore vista sul soggetto: il cibo come esempio di sostenibilità a 360° a cominciare da packaging, coscienza sociale ed etica del lavoro fino al team building e alle comunità resistenti - passando per ogni tipologia di linguaggio artistico mostrando progetti realizzati in molte aree del pianeta.
FOOD: Bigger than Plate (fino al 20 ottobre al Victoria&Albert Museum, Londra) ci conduce a scoprire anche come possiamo noi fare la differenza, organizzando esperienze di comunità che non solo portino ad una razionalizzazione della risorsa cibo ma che riscoprono e valorizzano essenze e frutti spontanei che ci circondano.
Come una miniera d’oro, fornisce un’indagine molto vasta - e assai sviluppata in ogni partizione della filiera - sulle pratiche sostenibili anche nella ricerca dei materiali: etichette e porta-bottiglie fatti con i residui della vendemmia, una coffee cup (molto nota) ottenuta dai fondi di caffè protagonisti di molti altri ottimi progetti sia di concimazione a portata di tutti sia di materiale costruttivo per arredi e complementi, i salvadanai fatti con i funghi e i resti di Mate fino a filati e oggetti in filamenti di cocco (tutti completamente biodegradabili). Fino, anzi, a materiali non così amabili come la carta igienica usata: una designer olandese la ricicla perché le fogne nel suo paese la separano dal resto e diventa materiale costruttivo per piatti e bicchieri grazie ad una sua intuizione tecnica. Anche il sangue di mucca trova una nuova ed ecologica vita ad opera di altri autori. La caseina ed altre proteine o spore sono protagoniste di altri esperimenti molto stabili sia nel campo della mimica della plastica sia nella creazione di pannelli fonoassorbenti per l’edilizia mentre elementi di frutti come l’ananas hanno fornito una delle alternative eco alla pelle e alla sua industria così nociva soprattutto in paesi del terzo mondo dove i reflui non vengono trattati.
E’ chiaro che non esiste un museo d’arti applicate così particolare (ed unico) come il V&A in ogni paese e forse non esiste spesso la possibilità di attivare partnership così sviluppate, così autoriali e di ricerca con istituzioni pubbliche monstre e così autorevoli nei loro campi.
Cosa fare se il proprio paese non supporta questa tipologia di sviluppo e soprattutto se gli enti locali e le istituzioni culturali non hanno il framework entro cui evolversi o se i governi cambiano spesso e non si fa in tempo a conoscerli e a strutturare un dialogo costruttivo e produttivo?
Si fa da soli, e spesso si fa meglio.
E’ il caso di una compagnia - molto più longeva della precedente e con un perimetro decisamente più ampio - d’origine familiare: armatori civili che hanno rifornito di cibo comunità ed aziende ‘dove non vi erano strade’.
Ligabue è stata fondata 100 anni fa da un soldato emiliano appena rimessosi da una ferita di guerra (Anacleto) che sposerà Venezia per amore di una donna e qui impianterà la sua creatura imprenditoriale e farà quattro figli. 100 anni dopo a occuparsene è il nipote, Inti Ligabue (classe 1981), che nel frattempo si trova a tu per tu con le grandi crisi economiche e politiche del finire del 1900 e fa risorgere l’azienda senza tema di costosi sacrifici.
Ligabue è sempre stato un caso di eccellenza italiana sinonimo di mecenatismo sin dalle origini: dalla formazione per i dipendenti ai premi quando entrambe le pratiche erano sconosciute, alla grande passione per la cultura fine a se’ stessa e ben lontana dal ‘core’ dell’azienda (il Centro Studi prima e la Fondazione poi, hanno creato mostre e pubblicazioni seguendo la passione del padre di Inti, Giancarlo Ligabue, per le esplorazioni e l’archeologia) e lo sport sostenendo ad esempio la prima squadra cittadina di basket.
Proprio nell’anno in cui compie 100 anni e finalmente il Comune locale intitola a Giancarlo il Museo di Storia Naturale a cui l’imprenditore/mecenate/archeologo aveva donato i suoi pezzi più belli negli anni - e mentre una delle sue mostre di archeologia apre il 18 ottobre al Museo Nazionale di Helsinki - Ligabue ha inaugurato nella sua Venezia una mostra sui cento anni che ha un’architettura curiosa ed inedita.
La Grande Impresa (fino al 3 novembre 2019, Scuola Grande della Misericordia, Venezia) non è (solo) una mostra della storia dell’azienda ma abbraccia - con un corposo sostrato multimediale - l’intera storia del 1900 a partire dalle due catastrofiche guerre mondiali per sottolineare come la dorsale del centenario incameri tutte le innovazioni tecnologiche più importanti che hanno profondamente modificato il nostro rapporto con il cibo ed il nutrimento.
Oltre alla ricchissima parte espositiva che non è mai troppo push con i milestone dell’azienda e preferisce sempre privilegiare il contesto economico e scientifico degli anni e dei paesi che attraversa, la mostra mette a sistema un altro degli strumenti adoperato dall’azienda negli anni per comunicare il suo spirito imprenditoriale - i dialoghi pubblici con personalità dei nostri giorni che fanno parlare di se’ come eccellenze nel loro campo. Nei quasi tre mesi di apertura, è costellata di conferenze (aperte al pubblico e gratuite) che spaziano dalla scienza, alla geografia, alla cultura, alla storia dell’arte e del collezionismo, all’astronomia e alle avventure sottomarine estreme, allo sport e ovviamente alla nutrizione.
La grandissima collezione di reperti della Fondazione Ligabue attende da anni di essere musealizzata ma trovare un luogo a Venezia è difficile e forse, data l’incredibile concorrenza ‘culturale’ del gran numero di musei e fondazioni pubbliche e private, sarebbe anche uno sforzo non premiato fino in fondo come potrebbe esserlo in un altro territorio.
Tuttavia Venezia è e resta sentimentalmente un luogo iconico per un’azienda presente in 14 paesi con oltre 7000 dipendenti dato che da qui partì.
Mentre aziende della moda come Prada e Trussardi pur profondamente legate alla loro città di nascita (Milano) continuano ad affidarsi alla produzione di grandi progetti di arte e altri linguaggi contemporanei per esprimere il corporate bond con un territorio (il mondo) e con le sue pratiche più cutting edge rifuggendo dal costruirsi qualsiasi sorta di museo-kunsthalle-collezione permanente, un museo americano sopravvive a se’ stesso proprio a Venezia creando troppo spesso occasioni per riflettere sulla sua origine e sulla sua forza (l’intuizione di una mercante d’arte e collezionista, Peggy Guggenheim). Più si accumulano queste occasioni, meno sono riuscite.
Della Collezione Peggy Guggenheim vi avevo già parlato a proposito di uno dei suoi più interessanti sistemi di sponsoring (Guggenheim Intrapresae) che mette insieme aziende che vogliono condividere e comunicare al mondo la loro cultura d’impresa anche attraverso la Collezione.
Meno interessante è quando, come nel caso di ‘Peggy - The Last Dogaressa’ (fino al 27 gennaio 2020), si celebra un anniversario (il 40mo dalla morte) ed è l’intera struttura veneziana (affacciata sul Canal Grande, attualmente diretta dopo un periodo di vacanza durato qualche mese dalla nipote di Peggy, Karole P. B. Vail), a riproporsi solo come una perpetua macchina del ricordo mentre a New York il Guggenheim lavora con tutta la gamma dei linguaggi contemporanei e tutto l’anno.
La Collezione non è l’unica casa museo veneziana ma è l’unica da ultimo un po’ seduta (o ingabbiata) in una mancanza di innovazione pur avendo come mission la valorizzazione di due importanti collezioni.
Qualcosa migliora dal lato utente, dove prima (quando innovava di più) registrava carenze di dialogo nella cruciale relazione con i 'clienti’: proprio a partire da questa ennesima operazione amarcord la direzione ha cambiato alcune tariffe d’ingresso e per la prima volta apre alla gratuità un giorno a settimana (il giovedì) per i residenti di oltre 40 comuni del veneziano senza limiti di età che permette di affiliare nuovi visitatori ed appassionati.