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Chiamami con il tuo nome: Oscar alla migliore sceneggiatura
sensualità e amore a 360°: non è un film di genere
‘Words don’t come easy to me…’ Chi ha mai dimenticato questa straordinaria canzone di FR David? Io credo fosse uno dei quattro vinili che abbia mai posseduto e che non ho mai perso di vista. So ancora oggi dove sia, in quale scatola dei ricordi.
Bizzarro, il film italiano più indipendente e più sensuale di tutti (dietro uno dei produttori che ha fatto tanto per il cinema emergente, anche lui un emergente nel suo mestiere: Francesco Melzi D’Eril, già Good Films con Lapo e Ginevra Elkann) l’ho visto alla sua prima uscita italiana in un cinema d’essai. Call me by Your Name è l'ottavo film di Luca Guadagnino, inclusi documentari e l'ultimo in lavorazione (un remake di Suspiria con Tilda Swinton).
Lo schermo lì misura circa 3 metri per 1,5: non gli hanno dato neanche la sala grande che pure esiste nello stesso cinema. E non si sa se la daranno domani. Non ero in provincia di Crema dove il film è quasi interamente girato, ero nella patria della Mostra del Cinema dove gli altri due che lo davano in provincia non erano poi così più grandi.
Il film a Venezia non c’era: è stato prima al Sundance e alla Berlinale; è uscito poi in Brasile e negli States. In Italia è non in tantissime sale dal 25 gennaio (soltanto). Le recensioni internazionali sono sublimi anche se per la prima volta dopo tanto tempo non c’è l’aura protettiva di Tilda Swinton, la musa di lunga data del regista e protagonista delle sue ultime pellicole. Eppure l’agente di Tilda gli ha procurato uno dei due protagonisti. Ma andiamo con ordine, prima il pubblico in sala.
Uno spettatore francese mi ha fatto notare che probabilmente il film era molto piaciuto visto che nessuno si era alzato prima che anche l’ultimo degli illeggibili titoli di coda giallo limone finisse di scorrere.
Uno veneziano, più giovane del primo, non aveva mai visto nessun film di Guadagnino prima ma aveva letto il libro e per questo era venuto.
L’autore è un non più giovanissimo docente ebreo di nazionalità originaria egiziana che insegna scrittura creativa a New York: ha già scritto il sequel. E’ Andrè Aciman che con Call me by Your Name ha vinto nel 2007 uno dei premi più importanti per la letteratura gay.
E, infine, il diluvio di emozioni. Un punto fermo: il film parla dei sensi e dell’amore a tutto tondo e non è confinato in un genere preciso. Proprio qui sta il bello, anche se le scene più roventi sono sicuramente tra due ragazzi le cui fisicità che si amalgamano pur così stridenti scioglierebbero un iceberg quanto a potenza della passione.
La pellicola è molto diversa da quelle a cui ci ha abituato il regista afro-italiano, sempre più esule e incompreso in Italia.
E’ un’ode al meglio ed al peggio dell’Italia: protagonista una famiglia straniera e un paese - figurato e reale - fatto apposta per venire bene in motion.
Prende in prestito, solo due volte ma nei punti giusti, quella specie di fuori fuoco tanto cari al primo Garrone, quello di Primo Amore per intenderci (anch’esso basato su un romanzo, peraltro). Per il resto, la sua precisione e meticolosità nel costruire un magma pressante è quasi ossessiva.
Si teme forse di vincere grazie all’effetto ‘Italian journey’ che ha spinto anche La Grande Bellezza coi giurati stranieri, ma le quattro nomination per cui Guadagnino corre agli Oscar/Academy Awards sono pesanti e tutte facili da agguantare: miglior colonna sonora a Sufjan Stevens, miglior film; le ultime due, quelle al miglior attore protagonista Thimotée Chalamet/Elio e al miglior adattamento a James Ivory (che ha vinto il BAFTA in questa categoria), si sono trasformate già in premi in circuiti minori, soprattutto americani e afro-americani.
Io scommetto su Chalamet e Stevens. Mi piacerebbe scommettere anche su Guadagnino, of course. Ma vince solo Ivory.
Il film mutua dall’amore di Guadagnino per il paesaggio e per le stagioni - della vita, dell’amore - un ritmo ed un senso tutti suoi in rapporto alla storia scritta da Aciman. Non l’ho ancora letta ma è la prima cosa che farò domani.
Calare questa storia negli anni 80 è un azzardo vinto e la ricostruzione storica e stilistica è sublime. Tanti i dettagli straordinari per farlo in maniera credibile: gli eterni dibattiti politici tra cui spicca un fotogramma di Grillo di quegli anni alla tv, i giornali dell’epoca con le eterne campagne elettorali e le storie della P2, qui e lì i poster alle pareti che ci tuffano in un’Italia neanche troppo immota, dal Salone del Mobile alle cose comuniste, le 127 e le 128, le bici da paese e gli zaini invicta, i pantaloni a vita alta, un tappeto sonoro straordinario per citazioni e per tenuta, le zanzare, le fontane della bassa. E gli stranieri che si riempiono il cuore a camminare sui ciottoli sdruciti dei vecchi paesi.
Il magico e lo spiazzante tuttavia è altrove. Risiede tutto nella sceneggiatura: nella trama in cui si racconta di cosa è fatta la modernità nei rapporti umani di questa famiglia intellettuale eppure affettiva, due genitori con figlio unico. In cui l’omosessualità o meglio la libertà d’amare non sono solo un mantra. Sono vissuti fino in fondo e lasciati vivere grazie al dialogo e allo sguardo, all’amore per lo studio, l’archeologia e la musica. Costi quel che costi.
Non venite prevenuti pensando soltanto al Maurice e a Camera con Vista. Ivory ha fatto qualcosa di nuovo, di suo ma di nuovo.
Come dicevo all’inizio non è solo un storia d’amore omosessuale a occupare il motore della trama, è piuttosto la capacità di pesare le emozioni lì dove nascono e farle vivere di moto proprio. Così che possano parlare a una platea poliamorosa, a orecchie senzienti che vengono da qualsiasi cultura e probabilmente aprire i lucchetti che impediscono spesso di cogliere i grani di infinito che ci circondano quando liberiamo fino in fondo quello che proviamo.
Non mente, la storia: ricorda che purtroppo non tutti sono così fortunati ad avere famiglie perfette e che quindi vivono nella tetra paura di mostrare ciò che provano. Ma è un rumore di fondo, per una volta non mangia tutto lo spazio.
Chiamami col tuo nome lancia un messaggio circolare quanto preciso. Oliver è Elio, Elio è Oliver. Come una rapsodia che può essere interpretata con eterni ritorni e cambi di ritmo.
Elio ha un vero talento musicale e suona nel film, parla spesso attraverso la musica quando ancora non trova le parole per vivere i suoi sentimenti. ‘Words don’t come easy to me…’
Tante volte uno ritorna ad essere l’altro perché non si soccomba di fronte al vuoto e alle debolezze.
La musica in questo film è più di un collante: è aggettivante, è una colonna fisica e metafisica importante.
Non vedo l’ora di guardare il sequel (le riprese di Call me by Your Name Sequel sono iniziate pochi mesi fa), ci si deve solo augurare che Guadagnino non ci metta altri sei anni per portarlo sugli schermi (stessi attori e stesso scrittore, 20 anni dopo) e che finalmente trovi tutto il supporto che merita.
#LucaGuadagnino, @aaciman, @CMBYNmovie @CMBYNFilm #CallMeByYourName
Cast completo:
Armie Hammer (Oliver), Timothée Chalamet (Elio), Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel, Victoire Du Bois, Vanda Capriolo, Antonio Rimoldi, Elena Bucci, Marco Sgrosso.