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Parigi trainata dall'arte: i dati sul turismo e le grandi mostre in città
Fondation Vuitton, Centre Pompidou e altri: appunti per un week end
45 minuti di coda - quasi ogni giorno, anche feriale! - per entrare alla mostra di David Hockney al Centre Pompidou (che non è neanche la più interessante proposta per l’Autunno Creativo, a cui aderiscono le migliori istituzioni d’arte della città di Parigi).
Potrebbe essere il risultato del massiccio investimento del governo in promozione turistica (circa 2,6 MLN euro) all’indomani degli sciagurati attentati del 2015: i turisti sono tornati a livello pre-crisi, anzi le cifre parlano di aumenti dal 5 al 19 al 30 % di presenze (a seconda dei paesi di provenienza) sul 2014.
In tutto, ad oggi, i francesi prevedono di dare il benvenuto a 89 milioni di turisti nell’intero 2017 (e, ovviamente, in tutto il paese).
Parigi, si sa, è la meta numero uno del paese e gli aeroporti cittadini principali hanno quindi rialzato la testa, dopo la debacle seguita agli attacchi multipli avvenuti in città.
L’arte, e la cultura contemporanea in genere, sono di sicuro la prima ragione di visita per i turisti. E l’ottobre parigino è, come d’abitudine, sotto il segno dell’arte, contemporanea soprattutto (FIAC, la fiera d’arte locale si svolge in ottobre).
Più in generale l’autunno è da decenni la stagione dedicata alle arti visive e alla performance (teatro, danza, musica) con una rete di eventi che dal 1972 il Festival d’Automne produce (da settembre ad ottobre, sono oltre 50 le istituzioni coinvolte e sono oltre 50.000 i pubblici medi stimati ad istituzione).
Prendiamo il caso di un’altra mostra al Centre Pompidou - eccezionale, unica, sempre affollatissima e gratuita - dedicata al maestro del cinema borderline, l’americano Harmony Korine (vi avevamo raccontato in anteprima il suo ultimo film, Spring Breakers che ha definitivamente cambiato l’estetica del videoclip musicale anche per gli artisti mainstream). La vernice della mostra in presenza dell’artista è stata a tal punto sold out (non era certo una promessa di champagne e cotillon, anzi: l’artista ha offerto… una conversazione monstre di oltre due ore!) che il museo ha dovuto recuperare in fretta e furia un’altra sala in cui mandare in streaming l’evento e accomodare almeno altre 300 persone.
Certo, direte voi, non capita tutti i giorni di avere Korine in carne e ossa che parla del suo cinema (e che presenta in anteprima due lavori commissionati dal Pompidou) ma sono, via via, sold out anche gli eventi settimanali di screening che i cinema del Centre programmano da qui al 5 novembre (data di chiusura della mostra). Oltre ai film del regista, ai corti, ai video pubblicitari e musicali (in mostra, del pari, quelli per i Sonic Youth e quelli per band ancora meno mainstream fino a quello per Rihanna), al regista è stata data carte blanche e quindi vengono presentati, una volta alla settimana, i film che per lui sono e sono stati importanti da spettatore.
La mostra presenta, in egual rilievo ed importanza, le grandi pitture ed i collage (romantici, caustici, eccezionali per la loro delicatezza e ferocia insieme: come artista visivo, Korine lavora con Gagosian a New York) ed estratti dai maggiori film.
Una serie di teche punteggia le grandi sale al livello -1 dove è ubicata la mostra. E’ lì che si scoprono le sorprese maggiori, ad esempio il Korine poeta, il Korine sceneggiatore per altri, il Korine ironico e caustico con testi esilaranti compreso il suo curriculum vitae - ed il Korine bambino, con i suoi primi passi nel mondo della danza.
Sempre al Pompidou, un altro appuntamento ‘clou’ dell’autunno parigino nelle arti è, dal 2000, il Prix Marcel Duchamp organizzato dai collezionisti francesi (circa 400) per promuovere l’arte francese.
I finalisti di quest’anno sono 4 (le loro opere saranno acquisite alla collezione del Centre) e ad accomunarli è la loro patria d’elezione: una è inglese e risiede in Francia (Charlotte Moth), due sono libanesi (Joana Hadjithomas & Khalil Joreige), uno è svizzero di origini italiane ( Vittorio Santoro) e l’altra è serba, il radicamento a Parigi risale ai suoi studi (Maja Bajevic).
Moth recupera statue consunte di giardini pubblici famosi (quelli poco distanti, e affollati, della Ville de Paris) e le rimette in scena con una scultura di luce e l’effetto sogno è assicurato.
Joana Hadjithomas & Khalil Joreige - che ci hanno abituati a performance veramente penetranti, complici grandi istituzioni dell’arte come da ultimo il Vera List Centre e subito prima la Biennale di Venezia - mettono in scena i carotaggi di vari luoghi simbolo per la loro biografia (Parigi, Beirut, Atene) in forma di sculture tubolari che proiettano una allegoria di ombre che si intersecano.
Vittorio Santoro crea un’opera minimale in cui linguaggio e spazio convivono in maniera strabiliante e soprattutto poetica.
Maja Bajevic crea una grande installazione composta di una intera ‘zolla’ di paesaggio e sculture sonore che trascrivono parabole impegnate di nuovi dei, i filosofi contemporanei.
E’ l’anno della Colombia in Francia e la Maison de l'Amérique Latine ci racconta una storia che non è certo allegra ma che è resa con una indicibile maestria, soprattutto (ancora una volta) poetica.
L’artista è Johanna Calle (1965), nata a Bogotà. Lavora esclusivamente con il disegno - quindi con la prevalente assenza di colore - ma in mostra sono presenti opere in cui mette insieme fonti diverse - spesso anche collage, fotografia la calligrafia e addirittura una collezione di fiori secchi (e molto altro).
Al piano d’ingresso ci sono due sale con grandi lavori (alberi composti da una sequenza di cartelle di disegni a loro volta intessuti di storie, scritte con una calligrafia minuscola, prese dalla triste cronaca degli espropri terrieri e mobiliari del suo paese). E altre sale, piccole e tentacolari, con diversi stili e progetti - tutti accomunati dalla straordinaria capacità dell’artista di parlare di temi scottanti per la loro rilevanza politica in modo lieve e magistrale e poetico al tempo stesso. Insomma, come introdurre il sogno anche nella violenza quotidiana sia sul piano personale che collettivo, credo sia maestria non di molti.
Ad esempio, un’opera si riferisce alla grande incognita di alcuni erbicidi (i glifosfati) che stanno peraltro per essere banditi in EU. Ed un’altra, al sistematico scempio delle minoranze linguistiche indiane in America Latina: in questo caso il lavoro è un’opera quasi grafica sui tanti modi di pronunciare (e ça va sans dire, scrivere) - precisamente sono 97 - la parola ‘pioggia’.
Se pianificate un week end nella capitale per scoprire come si è definitivamente rialzata - con orgoglio - la Francia dopo i fatti di Parigi o di Nizza, non potete assolutamente perdere un’altra mostra, inaugurata nei giorni subito prima di FIAC, alla Fondation Louis Vuitton (resta aperta fino al 5 marzo 2018): Etre moderne: le MoMa à Paris. Distribuita su tutti i piani della incredibile architettura disegnata da Frank Gehry, la mostra non è solo - o forse non è affatto - la cronistoria documentaria di un museo che ha segnato la storia dell’arte ben oltre New York. E non è soltanto la prima grande anticipazione in Europa sulla sua nuova architettura (disegnata da Diller Scofidio + Renfro) destinata ad essere inaugurata nel 2019. Il museo, infatti, si ingrandisce di circa 15.000 metri quadrati nel sito che doveva essere abbattuto ma che per via delle proteste sarà conservato e ristrutturato - parliamo dell’American Folk Art Museum - e di circa 39.000 alla Tower Verr definita MoMA Expansion Tower su 53 West 53rd Street.
Di fatto questa mostra è seminale per la capacità di raccontare come un museo così nuovo negli anni 30 del secolo scorso (e così avveniristico anche oggi), si sia dato una missione così eccentrica (allora) di lavorare su una modernità intesa come cosa viva, fluida e ovviamente inesplorata.
Facendo propria non solo l’estetica ma la filosofia Bauhaus (in mostra, al piano terreno, sette oggetti di uso comune che ci hanno permesso di costruire il futuro, inclusi bulloni e viti) e inglobando la creatività europea costretta a fuggire dalla seconda guerra mondiale e dalle persecuzioni razziste, il MoMa è cresciuto - e si è cibato, negli anni a venire - della visione dei collezionisti che hanno collaborato con esso in tutta la vita della grande istituzione americana (fino ad oggi).
Sebbene la mostra parta dal lavoro di sei dipartimenti via via istituiti (ed è costruita insieme ai direttori delle due istituzioni, la Fondation ed il MoMa stesso), essa si concentra sulle personalità dei suoi dirigenti, sulla collaborazione dei patrons e anche sulle ‘restituzioni’ operate verso il pubblico. Riguarda infine, ed in particolare, il posizionamento del museo attraverso importanti lasciti che gli artisti stessi hanno via via donato (celebre, la serie di disegni di Louise Bourgeois, che fece anch’essa di New York la sua patria adottiva e creò in maniera informale una fucina per giovani artisti che andavano a trovarla tutte le domeniche a casa).
Tante sono le collezioni ‘raccontate’, incluse quelle non ‘famose’ come una serie di fotografie anonime che un collezionista donò negli anni 50 e che furono il volano ed il fulcro di una serie di acquisizioni successive (integrate in un catalogo ragionato ed efficientissimo per la consultazione) talmente frequentate da studenti, visitatori, esperti di immagine e comunicazione, da studiosi che ad oggi rappresentano forse il motivo di visita principale per la ricerca. E che sono copiate da molti musei del mondo che hanno 'adottato' questa geniale idea, riadattandola ai loro contesti culturali.
Raccontate in mostra vi sono anche ‘acquisizioni’ recentissime che ovviamente ci parlano dello spirito di questi tempi e anche di come sia cambiato il concetto stesso di acquisizione. Se l’ultimo piano è dedicato all’interattività ed ai simboli della modernità più spinta (il simbolo della localizzazione sulle mappe o quello della chiocciola), vi figurano grandi dotazioni di fotografi contemporanei ed opere ‘cross-cultural’ acquisite di recente, che furono ideate e destinate a spazi pubblici come The Newsstand che l’artista e fotografo italiano Lele Saveri si era inventato per una stazione della metropolitana a Brooklyn. L’opera in situ è stata visitatissima e ovviamente saccheggiata da brand che la copiarono senza meno, prima di finire appunto al MoMa. E’ una vera edicola in cui trovare fanzine e immagini di ogni tipo e in cui perdersi nella lettura e nella scoperta.
Questa mostra va visitata senza alcuna fretta. Vi sarà impossibile staccarvi dalla magia del racconto, fatto di una grafica esemplare ed essenziale capace di riassumere il ruolo della collezione nella diffusione della cultura contemporanea (ad ogni latitudine) e sulla figura del donatore senza rendere difficile la comprensione di una mole incredibile di dati.
Le opere in mostra, oltre 200, sono state scelte soprattutto per puntellare un’esperienza davvero inedita - che al MoMa stesso non può essere fatta perché ovviamente è impensabile che un museo possa raccontare sé stesso nella quotidianità delle mostre e delle attività culturali che le affiancano. Del pari, neanche il suo archivio può estrapolare la ricchezza delle sue collezioni nella chiave di lettura attualizzata alla Fondation Vuitton.
Nell’andare via dal palazzo pieno di luce e di curve geometricamente quasi impossibili (presto anche la Fondation si espanderà sul sito accanto), non prendete gli ascensori ma scendete dalle scale e, piano dopo piano, scoprirete l’architettura ‘raccontata’ a partire dalla scelta dei materiali che l’architetto ha adoperato. Si tratta di una mostra permanente, Parcours Architectural, che spiega anche (e soprattutto) il contesto culturale e geografico del Bois de Boulogne e di come l’architetto canadese/losangelino Gehry l’abbia integrato nel suo progetto. In realtà l’accesso a questa mostra può essere ad ogni piano della mostra del MoMa quindi potrete costruire liberamente il vostro percorso di visita e crearvi delle pause dalla storia del museo per visitare la storia recentissima di questa architettura iconica che ormai domina quella che una volta era una periferia dimenticata della città di Parigi.