Qual è il colore del teatro? Il verde, lo stesso della sana follia

La prima biennale Teatro firmata Antonio Latella a Venezia dal 25/7 al 12/8: il nostro day by day

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Qual è il colore del teatro? Il verde, lo stesso della sana follia

La prima biennale Teatro firmata Antonio Latella a Venezia dal 25/7 al 12/8: il nostro day by day

Qual è il colore del teatro? Il verde – spiega il regista italiano Antonio Latella che per il primo anno dirige la Biennale Teatro di Venezia e la sua sezione college (quest’anno incentrata particolarmente sulla regia). E prende a prestito una frase di Artaud, che diceva che il verde è il colore della sana follia. Lo incontriamo a margine dell’inaugurazione di una mostra fotografica e video che raccoglie sotto il segno femminile i nomi ed i volti delle protagoniste delle varie edizioni della Biennale Teatro e Danza (prima unificate).

Si è aperta nel foyer di Ca’ Giustinian (San Marco), si tratta della decima mostra che la Biennale cura grazie ai preziosi documenti che l’ASAC (Archivio Storico per le Arti Contemporanee, altra sezione del gigante culturale di marca statale in azione a Venezia) di volta in volta schiude al direttore di settore che se ne ‘appropria’.

 

Questa volta Latella ha scelto questo tema – la regia al femminile - per la sua Biennale, per raccontare l’analisi delle creazioni di registe donne che provengono da realtà diverse.  Parlando del ricordo (che è morto) e della memoria (che è viva e che secondo lui va ben oltre la ‘tradizione’, gettando semi di futuro), il regista ha detto che intendeva “recuperare, attraverso adeguata documentazione, anche frammenti di esperienze forse cadute nell’oblio, passaggi di artiste che soltanto il necessario, fondamentale contributo offerto dal patrimonio dell’Archivio Storico può permettere di riportare alla luce, offrendoci la possibilità di comprendere che ciò che siamo e ciò che ci permettiamo di fare oggi lo dobbiamo a chi ci ha preceduto.’


Le prime presenze femminili si registrano a Venezia con Edwige Feulleure, nel 1950. Per mezzo, un leone d’Oro alla Bausch presente due volte in calendario insieme a tante grandi registe e coreografe che invece erano metà del cielo di altrettanti uomini illustri. Sessantasei artiste ed autrici femminili che hanno calcato i palcoscenici della Biennale a cui si aggiungeranno, per scelta di Latella quest’anno una serie di artiste che oltre ad una formazione decisa sulla regia hanno contaminato le loro carriere con l’arte visiva. In tutto incontreremo dieci registe dai timbri e dalle tradizioni tutte europee.

Leone d’oro alla Carriera è Katrin Brack. Lungo l’arco del Festival – dal 25 luglio al 12 agosto – una sua installazione sarà nel foyer del Teatro alle Tese.

 

Leone d’Argento è la polacca Maja Kleczewska, che fu assistente di Warlicowski. In scena (saranno tutte prime Italiane, non solo la sua), The Rage (25-26 luglio 2017).

 

Interessante sarà vedere il lavoro di Ene-Liis Semper, regista di Tallin (Estonia) che ha addirittura esposto anche alla biennale d’arte rappresentando il suo paese. Con il suo Theatre NO99, fondato nel 2005 con Tiit Ojasoo, porta a Venezia due spettacoli. Filth (26 luglio, Teatro alle Tese) e El Dorado, the Clowns’ Raid of Destruction (27 luglio, Tese dei Soppalchi).

 

Quattro spettacoli sono quelli firmati dalla francese Nathalie Béasse: Le bruit des arbres qui tombent (28 luglio, Teatro Piccolo Arsenale), Tout semblait immobile (30 luglio, Tese dei Soppalchi), Roses (29 luglio, Teatro alle Tese), Happy Child (31 luglio, Teatro Piccolo Arsenale).

 

Maria Grazia Cipriani, fondatrice del Teatro del Carretto con il costumista e scenografo Graziano Gregori, mette in scena la fusione tra il mondo della fiaba e il reale. Saranno in scena spettacolo-manifesto Biancaneve (1 agosto, Tese dei Soppalchi), quindi Pinocchio (1 agosto, Teatro alle Tese), Le mille e una notte (2 e 3 agosto, Teatro Piccolo Arsenale),

 

Livia Ferracchiati, trentunenne, studi di regia alla Paolo Grassi di Milano dove si diploma nel 2014, porta a Venezia Todi is a small town in the center of Italy (2 agosto, Tese dei Soppalchi),  Peter Pan guarda sotto le gonne (3 agosto, Tese dei Soppalchi), semifinalista al Premio Scenario.

 

Regista di prosa e regista d’opera, la trentottenne tedesca Anna Sophie Mahler, Zurigo, fonda nel 2006 la propria compagnia CapriConnection, a Venezia porta Tristan oder Isolde (4 agosto, Teatro alle Tese), Alla fine del mare (5 agosto, Teatro Piccolo Arsenale), basato sul film di Fellini E la nave va.

 

Quarantaduenni, dall’Olanda, Suzan Boogaerdt & Bianca Van der Schoot lavorano insieme dal 2000 dopo aver entrambe terminato la stessa scuola di teatro di Amsterdam. Dal 2011 lavorano a una serie denominata Visual Statements, performance dedicate alla “società dello spettacolo” e al ruolo dell’immagine nella cultura odierna. A questa serie appartengono anche i due spettacoli presentati alla Biennale: Bimbo (5 e 6 agosto, Teatro alle Tese) e Hideous (wo)men (8 agosto, Teatro alle Tese).

 

La regista Claudia Bauer, classe 1966, alla Biennale presenta Und Dann (7 agosto, Tese dei Soppalchi) e Der Menschen Feind (9 agosto, Teatro Piccolo Arsenale), riscrittura del Misantropo molièriano. Sono spettacoli questi in cui la grammatica del teatro si scompone per ricomporsi in una nuova prospettiva, dice Latella.

 

 

Biennale day by day 

 

The Rage di Maja Kleczewska

 

Il rosso ed il nero, un conflitto che si dipana lungo tutto The Rage. Sottile – ed insieme rapace, sanguinolento, minaccioso, mieloso, spericolato ed aereo. In mezzo, un’intera mazzetta dei colori, con particolari predilezioni per quelli fluorescenti. Latella ha rischiato tutto alla prima manche della sua triennale esperienza come direttore del Settore Teatro (Alex Rigola non mi sembra abbia mai rischiato, preferendo i fenomeni più amati ad Avignone, Latella compreso).

 

Dicevamo, Latella ha rischiato. In primis nominando un Leone d’Argento come la Maja Kleczewska (e dando il Leone alla carriera a una scenografa, Katrin Brack). In realtà, la prima del primo giorno di festival (The Rage si ripete anche il secondo, 26 luglio, stesso posto ma alle 17, 165’ più intervallo) è stato il maggiore rischio che ha corso.

 

Ha presentato un teatro di durata (lui che ha messo in scena spettacoli di oltre 5 ore), oltre che un festival con il maggior numero di repliche. E con questo pezzo (in prima italiana) ha fatto vedere come la drammaturgia, l’architettura, la letteratura ed il reale possano essere veramente alla pari in un teatro che si lascia alle spalle il cliché classico - di classico come strumento tipico del teatro forse ha un testo magistrale e il fatto che ‘se testo sia’ deve essere unico e straordinario.

 

Venite con acqua e uno snack, non avrete voglia di andare via tanto presto. E spaziate per il teatro, comprese le sedie dietro di voi, gli spazi laterali e poi via fino ai bagni, ai corridoi. Spingetevi fino ai camerini: tutto è palcoscenico, lo diventerete anche voi quando i bravissimi attori di compagnia vi verranno a cercare, facendovi partecipi. Non abbiate paura: non vi sarà richiesto nessun numero da contorsionista, scalatore, ballerina, soprano o terrorista (tutto questo sarà sul palco insieme a moltissimo altro ancora, incluso un momento solo di puro terrore che cita la tragedia di Beslan come quella del teatro moscovita. Ed uno di estasi con un doppio tableau vivant tra una statua del Cristo che affoga come i migranti e un rasta africano che vi scruta vivo e immoto: da brividi).

 

Vi viene chiesto di aprire il cuore e leggere uno spartito sofisticato, fatto di ottima regia video dagli attori in scena che migliori non potrebbero essere a interpretare un testo straordinario, forti di un lavoro sui costumi di enorme caratura.

 

Maja Kleczewska mette in scena il suo quarto spettacolo tratto dalle storie di una straordinaria e prolifica scrittrice e poetessa femminista, l’austriaca Elfriede Jelinek. I suoi scritti per il teatro sono stati amati anche da David Linch per Lost Highways (l’opera) e sono soprattutto oggetto di un controverso Premio Nobel nel 2004 (per molti i suoi testi sono ‘vera e propria pornografia’, per altri sono la letteratura più eccelsa).  Molti avranno visto il film conturbante di Michel Haneke con Isabelle Huppert che si taglia in segreto, ha un rapporto morboso con la madre ed è l’istitutrice di piano di un giovane che presto diventerà suo amante. Il romanzo da cui Haneke ha tratto il film, The Piano Teacher, è della Jelinek.

 

Dopotutto Latella mette in scena cose tipo MA che abbiamo visto anche a Venezia (una storia straordinaria – soprattutto nella messa in scena - che parte dalla madre di Pasolini e arriva a circondare tutte le donne del mondo, che sono ‘prima figlie che madri’), ma anche cose come Santa Estasi che portano il pubblico a stare per 9 ore in due giorni a teatro.

 

The Rage vi accoglie come uno studio televisivo, in cui un varietà di dubbio gusto prende piede partendo dagli stereotipi tipologici di questa età di mezzo verso l’apocalisse (mediatica, umana, sociale, economica). Un ultrà rap oltre il razzismo di destra, un invasato cattolico ed un rifugiato africano si contendono la scena ma ben presto ognuno degli straordinari attori (e molti altri che si aggiungono compiendo un lungo viaggio per le strade di Venezia che pure si fanno palco e spesso anche in presa diretta!) seguirà un suo copione con un trasformismo incredibile e una delle migliori macchine scenica viste a Venezia da Naumon della Fura del Baus (lì era facile, si stava su una nave e l’effetto wow era assicurato già da quello).

Non potrete che restare incollati alla poltrona fino alla fine. Alla fine della prima italiana, una degli attori, con voce rotta dal pianto, ha chiesto di leggere un testo deprecando i gravissimi scontri in corso in Polonia a causa delle leggi restrittive per i pubblici spettacoli (che seguono quelle del 2016 sulla stampa) emanati da un pericoloso ed autoritario governo di destra tuttora in carica (tanti i polacchi in piazza in questo momento nelle principali città, poche notizie sulla stampa italiana).

‘Essere qui stasera a testimoniare il gravissimo clima del nostro paese è importante soprattutto per coloro i quali si stanno battendo a casa in questo momento’.

Anche prima della lettura di questo grido d’aiuto sconvolgente, il pubblico era in piedi ad acclamare questo dramma monstre.

 

 

 

NO43 KONTS (Filth) di Ene-Liis Semper


Violento, oltre la soglia di cattura. Questo è NO43 KONTS (Filth): 115’ interamente spesi nel fango tra nove attori, i maschi il doppio delle donne anche se la violenza è periodicamente istigata da entrambi i sessi.

Il fango, che spesso arriva in platea alzato ad arte dagli attori nonostante la suggestiva scatola scenica in cui è racchiuso insieme ai suoi ‘agitatori’, è la metafora sociale e filosofica che la video artista e scenografa Ene-Liis Semper, classe 1969, porta a Venezia (con il suo compagno di vita e co-proprietario della sua compagnia teatrale, Tiit Ojasoo, che è del 1977).

 

Oggi sarà protagonista delle conversazioni ad accesso libero a Ca’ Giustiniano alle 16.30 mentre stasera alle 19.30, alle Tese ai Soppalchi, è la volta della sua performance NO42 (Eldorado: The Clown’s Raid of Destruction, 65’).

 

Vi sarete chiesti perché sempre i numeri nei titoli dei loro lavori. Fanno parte della libertà con cui i due autori saccheggiano le discipline – arte, scenografia, videoarte, performance e ovviamente danza e teatro. Arriveranno, ad un certo punto, al grado zero: i numeri discendono invece di aumentare.

 

Venezia aveva già visto Semper, al Padiglione Italia nel 2001, come artista visiva con un suo video e alla Fondazione Levi.

 

In Filth, prima di tutto inchioda l’incredibile maestria dei performer che lavorano per ben due ore nel fango. Poi viene immediatamente in risalto la coreografia ed i movimenti tersicorei (le parole arriveranno, come dardi, ma è più importante il parlato dei corpi, autore Jüri Nael), perfetta e anche fantasiosa per rispondere, immaginiamo ad esigenze anche fisiche: il fango si raffredda e si rapprende e numerose sono le parti in cui i danzatori-attori volutamente tremano, per tenere i muscoli caldi nella immobilità a bagno nella melma.

 

La regista ha detto che il fango (materia con cui ha già lavorato a lungo nei suoi lavori d’arte) è metafora della società attuale in cui è impossibile una coesistenza pacifica e a prevalere sono i bassi istinti.

Va però oltre la Semper nel suo Filth mettendo in scena la radice della sopraffazione sessuale fino allo stupro (ovviamente accennato, non consumato). Immaginiamo che per spettatori inconsapevoli che abbiano vissuto esperienze di violenza, assistere a Filth senza rete può rappresentare un trauma o una catarsi a seconda della personalità o dello stadio di compromissione del proprio stato emotivo.

 

Di sicuro, lo spettacolo regala una scenografia potente che investe i sensi al massimo della potenza consentita. Filth non solo cattura per un sapientissimo disegno di luci e sound design, ma pervade ogni grammo delle persone al di là del ‘vetro’ proprio per l’odore del fango che diventa prepotente.

 

Sebbene sia di una tragedia e di una violenza inaudite, paradossalmente il pubblico ha riso di gusto per quasi due ore in molti passaggi (vi è una certa comicità intervallata ad altri stati d’animo per un ottovolante continuo dei sentimenti), per poi piangere in pochi secondi.

 

Da vedere, con cautela. Preparandosi psicologicamente se si può.

 

 

Quasi un museo del gesto

 

E’ appena iniziata una speciale sezione della Biennale Teatro 2017, dedicata ad un’artista del teatro pubblico francese che viene d’Angers, parliamo di Nathalie Béasse che come la maggior parte delle registe invitate, condivide il dato biografico dell’essere stata (ed essere) un’artista visiva e di utilizzarne in maniera estremamente efficace il linguaggio in scena.

 

Latella dedica quattro spettacoli alla sua magia teatrale (ieri Le Bruit Des Arbres Qui Tombent, oggi Roses, domenica 30 luglio Tout Semblait Immobile – dopo che incontra gratuitamente il pubblico a Ca’ Giustinian ore 16.30 – ed infine lunedì 31, Happy Child) che sono anche un abbonamento nell’abbonamento a questo festival che riserva ogni giorno sorprese nei linguaggi, nell’uso dello spazio e nelle forme di dialogo con il pubblico.

 

Nathalie Béasse deve aver deciso di fondare un museo del gesto. Ne prende uno, lo analizza da ogni possibile lato – il brutale, il magico, il diverso – e lo offre agli spettatori in una forma unica.

In Le Bruit des Arbres Qui Tombent (quasi letteralmente) adora osservare come cadono (come diventano succedanei) gli oggetti  - preferibilmente teli, abiti e corpi – se mollemente adagiati o lasciati scivolare o se costretti a contorsioni.

 

Lo spettacolo inizia a scena nuda, ogni quadro o capitolo (il testo esiste e aggiunge solo un altro livello onirico) permette ai quattro performer di introdurre uno o più elementi di scenografia che sono agiti sempre con cura maniacale ed una devozione che ha lo scopo di scoprirne il movimento, la gravità, il loro stare al mondo.

 

Sicuramente il momento spettacolare non manca in nessuno di questi ‘tableau’- sebbene il primo sia quello che lascia più di stucco: un enorme telone di plastica nera come quella dei sacchi per l’immondizia, della stessa dimensione del proscenio (escavato a nudo), viene agitato dai quattro attori come una diafana e molle stoffa di seta grazie a delle corde ad ogni angolo. Accade a ritmo di musica con allegri, andanti e anche pause e riflessioni.

A tratti il movimento creato oscura totalmente il teatro (ed il buio è un colore presente al pari di tinte pastello tutte scure), a tratti lo rivela, a tratti sembra un quadro di Kiefer, insistente e soave allo stesso tempo.

 

Sarà, poi, la volta di terra, tronchi, vestiti ed anche di buffi alberi finti, così come di un insistente scroscio d’acqua che una volta adagiato sul pavimento diverrà musica subito dopo, battuta dai piedi degli attori. E sarà la volta anche di dialoghi in altre lingue (arabo tedesco e forse scandinavo) che si mischiano al francese e all’inglese.

 

Un’avvertenza: Béasse non fa quadri fantastici in cui crogiolarsi, parla di temi molto correnti e anche molto gravi e lo fa contrapponendoli, appunto, ad un lavoro sul gesto e sullo spazio scenico unici nel suo genere.

 

Anche in Le Bruit des Arbres Qui Tombent (titolo preso a prestito dagli Indiani d’America) non ci sono eccezioni.

 

Nel primo capitolo si narra di una famiglia disfunzionale che non riesce più ad amarsi e a convivere ma neanche a separarsi, causa indigenza. E quindi purtroppo decide per la morte.

 

Il tema centrale della storia, l’amore violato dalla famiglia, si raccoglie e si racchiude nell’ultimo capitolo (quando ci si accorge anche che un’ora e mezza è volata via in un battito d’ali): la piccola lince che si perde da piccola e così si separa dai genitori. Diventa grande e per la prima volta se ne accorge perché si specchia in un lago e quindi conosce se’ stessa. Proprio mentre sfiora la morte per annegamento.

 

Una piccola postilla, infine, per leggere i successivi spettacoli in cartellone che non sono solo della Béasse. Sebbene tutte le registe invitate per un pezzo della loro vita hanno fatto fine art e vissuto in termini di quello (e molte ancora lo fanno, accanto al teatro), sebbene tutte più o meno siano o siano attive in uno stesso continente (l’Europa), non si conoscevano tra di loro, almeno non proprio tutte. Quindi oltre a una ricchezza per il pubblico, questo festival ha una ricchezza (in più) anche per le compagnie invitate.

 

 

Generazioni a confronto, poi il ‘deserto del reale’

 

Livia Ferracchiati porta in scena attori la cui maggiore è solo 29nne, del resto la stessa regista è la più giovane invitata alla prima edizione della Biennale Teatro targata Latella.

 

Centro-italiana e sostenuta da centri sia nella sua regione che in Lombardia, studi alla Paolo Grassi di Milano - mentre legge anche Middlesex tra le varie letture selezionate per approfondire il tema - ha preparato una trilogia sull’identità (trans)essuale. A Venezia ne ha portate due di pièce del ciclo, noi abbiamo visto Peter Pan Guarda Sotto le Gonne: pur peccando di qualche innocenza su raccordo e fluidità di testo e drammaturgia, tutto sommato è godibile, buona la scenografia e il suono - e soprattutto ottimi i movimenti tersicorei delle giovani interpreti.

 

La Biennale offre una panoramica a tutto tondo di registe anche più adulte che spaziano da una grossa attenzione al corpo a quella del teatro musicale a tutto tondo.

Questa settimana che viene è la volta di una coppia molto interessante ed attesa: le olandesi Suzan Boogaerdt e Bianca Van der Schoot che lavorano insieme da un decennio ancora una volta mettendo a comun denominatore l’arte visiva.

La loro prima pièce in prima italiana a Venezia è BIMBO del 2011 (in replica anche domenica 6 agosto) mentre martedì 8 saranno di nuovo in scena con Hideous (Wo)men, senza dimenticare che si presentano al pubblico con un talk ad ingresso gratuito (lunedì 7 agosto ore 16.30) a Ca’ Giustinian moderati da Claudia Cannella (Hystrio).

 

Non accomodatevi come al solito. BIMBO è un’esperienza di teatro totalmente differente, due ore che passano come niente: il palcoscenico è una quasi-gabbia dai contorni ariosi e colorati (costruita con appendiabiti e panchine da palestra dove ogni attrezzo e costume di scena è in vista e sarà poi agito dalle performer) e gli spettatori hanno due canali di visione: quello reale e quello del ‘deserto del reale’ (è una citazione tra le tante – sagaci - istruzioni testuali che apre lo spettacolo, presa da L’altro visto da sé di Jean Baudrillard).

 

Il ‘deserto del reale’ è lo schermo (in tutte le sue moltiplicazioni attuali; dal tablet alla vecchia tv passando per i cellulari) che ci propina pubblicità in quantità schiaccianti e stereotipi tanto sulla figura maschile che su quella femminile oltre che una visione affatto naturale dell’accoppiamento e del sesso.

Tutto lo spettacolo è ‘recitato’ nella gabbia utilizzando solo un cono di visione ed un’astuta tecnica ‘spartana’ di luci (le vie di fuga fuori dal cono ci leggono la vita vera, quella vissuta: il cambio di scene, di trucco, le istruzioni fugaci per il successo, la fatica). Ed è, in tempo reale, ‘trasmesso’ dalla ‘TV’, una serie di schermi che a loro volta circondano il rettangolo di scena. Gli spettatori possono guardare le cinque performer (tra cui le due registe) cambiare sesso, dominanza e soprattutto costumi, in maniera forsennata a recitare e ballare sempre sullo stesso pezzo, una nota canzone dalle infinite cover. Sia dal vivo sia dal deserto del reale, che ovviamente ci rimanderà solo una porzione selezionata della vera vita.

 

Lo spettacolo non ‘inizia’ e non ‘finisce’ anche se c’è un ben preciso climax che non vi sveliamo e che è struggente.

Sarà una delle registe, Suzan, a chiamare la chiusura stringendo un pugno, come a raccogliere sul crepaccio un’armata. Ed infatti, dopo i tanti applausi, gli spettatori vengono invitati a restare a chiacchierare con ciascuna di loro che intanto ‘rassetta’ la scena. Le abbiamo chiesto se avesse preso gli arredi davvero da una scuola e da una palestra e ci ha risposto di sì aggiungendo inoltre che per loro è tanto significante la loro provenienza.

 

Se non l’avete già fatto, prenotate subito le prossime repliche veneziane, in prima italiana, dell’incredibile compagnia olandese.

 

La nuova Biennale College e la maratone di chiusura del 45.mo Festival

 

You know I’m No Good, famoso singolo di Amy Winehouse, è il titolo della maratona finale in scena l’11 e il 12 agosto che ha chiuso la prima Biennale Teatro curata da Latella negli spazi restaurati pochi anni fa delle Sale d’Armi: si tratta degli spettacoli finali dei laboratori di Biennale College. Sono stati sette, incluso quello di scrittura teatrale i cui esiti erano in forma di rivista.

 

In scena oltre 100 giovani artisti (non solo attori e registi, ma anche drammaturghi e scenografi o sound designer) selezionati tramite bando e provenienti da tutta Europa (Italia, Austria, Belgio, Francia, Germania, Albania, Grecia, Polonia, Romania, Serbia, Spagna, Svizzera) e dagli Stati Uniti. A Venezia per Biennale College – Teatro i giovani artisti hanno seguito una prima settimana di lavoro propedeutico con Antonio Latella (il quale li ha fatti lavorare, insolitamente, sull’inchino con un curioso quanto profondo esercizio), e con il drammaturgo Federico Bellini, a cui sono seguite due settimane sul campo con i maestri dei workshop prescelti dagli applicanti.


In scena si sono viste sette brevi performance senza soluzione di continuità (20 minuti di durata, 10 minuti di cambio di scena), tutte ispirate a un unico motivo, proposto dal Direttore Antonio Latella. Ai maestri dei laboratori è stato chiesto “di identificare un’artista, donna, operante dalla seconda metà del Novecento misteriosamente scomparsa, e di mettere una lente di ingrandimento là dove si possa vedere qualcosa che per troppo tempo è rimasto nascosto, o volutamente tenuto sotto silenzio. … ‘


Simone Derai di Anagoor ha scelto di lavorare attorno alla figura di Norma Jean Baker (Marilyn Monroe 1926-1962) ed il lavoro è stato di un grande impatto emotivo.

 

Nathalie Béasse ha lavorato su Jean Seberg (1938-1969), i suoi corsisti sono stati particolarmente felici di lavorare con la regista francese, che non voleva quasi mettere in scena la performance finale avendo a cuore soprattutto il lavoro con gli artisti.

 

Franco Visioli e Letizia Russo sull’artista e scrittrice surrealista tedesca Unica Zürn (1916-1970), chiedendo a giovani sound designer iscritti al loro laboratorio di elaborare le frequenze del battito del cuore umano: è stato sicuramente lo spettacolo più ricco e complicato, considerando il brevissimo tempo di preparazione.

 

Anna-Sophie Mahler sull’autrice svizzera-romena Aglaja Veteranyi (1962-2002), creando un convincente apparato scenico dalle qualità molto elevate.

 

Maria Grazia Cipriani del Teatro del Carretto su Amy Winehouse (1983-2011): forse questo lavoro ha toccato di più le corde dei presenti e sicuramente ha dimostrato un enorme lavoro sull’attore.

 

Il Leone d’oro Katrin Brack ha lavorato sulla scultrice minimalista tedesca Charlotte Posenenske (1930-1985): gli esiti di questo lavoro erano in video nelle sale della performance.

 

Suzan Boogaerdt e Bianca Van Der Schoot sono state le più convincenti (e le più dirompenti) su Lee Lozano (1930-1999), al centro della scena artistica newyorchese degli anni ‘60, che critica per le sue discriminazioni attraverso il gesto estremo della serie “Boycott Piece”. Si sono concentrate sul dropping out: sullo sparire. Gli attori non erano in scena ed erano rappresentati da straordinarie descrizioni e dalle loro voci

 

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