» archivio blog
-
Basilea e oltre: temi primari tra arte, teatro, design e collezioni
data: 17-06-2015
-
Intervista a Nicola Toffolini
Inventore di mondidata: 24-04-2011
-
Donne senza uomini.
Installazione multimediale di Shirin Neshatdata: 01-03-2011
MONA: idea totale. Da collezione a paesaggio. Di David Walsh
Destinazione - intellettuale, turistica, rockettara e molto altro ancora - imprescindibile.
Aspettando un nuovo hotel che assomiglia a un ponte (Homo) ed aspettando che il suo straordinario festival estivo Mofo, (Mona Foma che avviene nell’estate australe: gennaio) che mischia arte, performance e musica incredibile venga spostato da Hobart dove ha sede il suo MONA a Launceston per creare un effetto acceleratore anche sulla città meno turistica della Tasmania, il miliardario ‘gambler’ David Walsh (con accanto sua moglie, la curatrice ed artista americana Kirsha Kaechele), ha aperto la nuova ala del Museum of Old and Modern Art, di cui vi abbiamo già parlato e vi riportiamo sotto queste righe.
Si chiama Pharos (dal greco, faro) e al contrario della prima parte del museo che è tutta sottoterra, la nuova ala è tutta ‘overground’, una vera e propria stazione di luce dove a farla da padrone forse è l’artista più caro allo stravagante collezionista, l’americano James Turrell con cui ha condiviso molte passioni (dal gioco d’azzardo ad un importante fatto personale: fu Turrell a convincere Kirsha a sposarlo e lui ha dichiarato che quest’omaggio a lui lasciandogli in pratica riempire Pharos con le sue opere è quasi come ripagare un debito per la sua felicità).
Pharos è sempre affidato alla progettazione dello studio di architetti australiani Fender Katstalidis. E’ composto da volumi che in realtà nascono attorno ad opere straordinarie, quasi tutte incluse nel biglietto di visita (per due di esse - Unseen Seen e Weigth of Darkness, due opere interattive di Turrell, occorre pagare un biglietto ulteriore di 25 dollari australiani). Nella nuova ala del museo è stato costruito anche un bar (totalmente aperto alla visione circostante a differenza di quello nella vecchia ala che è del pari scavato nella roccia) che dona la vista sul fiume che attraversa il sito.
Oltre a Turrell che ha ideato tutte opere concepite per lo spazio, vi è un’opera storica di Richard Wilson, 20:50 del 1987, che forse molti di voi ricorderanno: una grande vasca di quel che sembra petrolio. Vi è una straordinaria opera di Nam June Paik (Lincoln, del 1990: un ritratto del presidente americano sotto forma di robot); poi Grotto, un’altra opera concepita per gli spazi del museo ad opera di Randy Palumbo, definita scherzosamente sul sito del Mona come ‘la capitale dei selfie’. Ed un’altra opera storica di Jean Tinguely, Memorial to the Sacred Wind or The Tomb of a Kamikaze (1969).
Ad unire la vecchia ala interrata del museo e la nuova, Pharos, è stato scavato un tunnel per cui Turrell ha concepito un lavoro, Beside Myself, che è un volume di luce da attraversare (all’opposto di Weight of Darkness, all’interno di Pharos, che invece è un’installazione di buio da attraversare a tentoni). Infine, sulla falsariga di quanto aveva già prodotto in altri musei, Turell installa anche una grande ‘stanza/quadro’ di luce e usa il colore dell’anno, il fucsia: Event Horizon.
Se Homo vedrà presto la luce (investimento stimato 300 milioni di dollari), ospiterà anche la meravigliosa libreria di Walsh; si tratta di una grande collezione di libri, manoscritti e mappe (prima di collezionare arte, ha sempre divorato da avido lettore i libri e sin quando ha cominciato a poterselo permettere anche collezionato pezzi unici).
Già oggi molti dei suoi oltre 30.000 volumi sono gratuitamente in consultazione alla libreria del Museo anche per chi non entra al museo, di cui vi abbiamo parlato intervistando Mary, la libraria, su Slow Words.
Remota destinazione ai confini del mondo, la Tasmania è stata ricordata – e visitata – come la maggiore colonia penale all’estremo sud del mondo.
Ultimo avamposto umano prima dell’Antartide, esce da un selvaggio passato industriale e resta un ottimo allevamento di pecore (e frutti di mare) ma non riesce a lavarsi via la macchia di luogo di apartheid nei confronti dei nativi aborigeni.
La Tasmania è uno degli stati federali dell’Australia, aggressiva repubblica mineraria parte del Commonwealth, ma ha uno statuto un po’ speciale: curiosamente, è stato uno degli ultimi stati a dichiarare abolita una legge che puniva con il carcere estremo i rapporti omosessuali, lo ha fatto solo nel 1997 ed ora è in corso un revisionismo apologetico per chiedere perdono alle vittime di questa legislazione.
Dal 21 gennaio 2011 (21/01/2011 per chi di numeri è patito) è ricordata – e viene massicciamente visitata – per un museo d’arte contemporanea (ed antica) che è molto più di una collezione privata stravagante, dissacrante ed imprevedibile aperta al pubblico. E’ una destinazione – intellettuale, turistica, gourmet, rockettara e molto altro ancora – imprescindibile.
MONA (Museum of Old and New Art) è un’idea totale.
Frutto di un solo uomo, David Walsh - genio, oltre che gambler: le sue fortune riposano su grande capacità imprenditoriale e l’aver inventato un algoritmo per le scommesse (gli architetti che hanno avuto la forza di tenergli testa ad edificare il museo sono una firm australiana, di base a Melbourne, lo studio Ferner Kastsalis).
Avete presente la capacità di calcolo di Rain Man nel film omonimo (a proposito, Walsh è bandito da ogni casinò della terra)? Bene, lui quella capacità la ha per ogni cosa di cui si interessa, dall’archeologia alla fisica all’astronomia passando per le energie alternative, l’enologia ed il sapere dei maestri birrai. La sua libreria, ovviamente in libera dotazione al museo inclusi bibliotecari e mediatori, comprende 9000 volumi. E questi sono solamente quelli riguardanti i soggetti attualmente musealizzati nel compound….
Gira (solo) in auto elettrica, vive nel suo museo (una parte del suo salotto guarda in una delle gallerie espositive) e si dedica a fare beneficenza specialmente per tutto quello che si trova nella sua Tasmania (è nato a pochi chilometri da Hobart, la città capitale dove si trova il museo). Va anche oltre – e non bada di sovente alle nazionalità almeno quando si tratta di sostenere un artista.
Benefattore anche di festival musicali (il suo, che si tiene al museo, si chiama MOFO e mischia suono e arte ogni mese di gennaio quest’anno dal 13 al 16, contando presenze da ogni parte del mondo) è anche il mecenate del locale museo antropologico e storico (la cui sezione sul paesaggio dice molto del perché queste terre sono vere e proprie calamite per artisti e viaggiatori). E sta ristrutturando un altro museo sull’isola.
Ha raccontato (e molto altro di quel che pensa lo si legge sul suo blog) che a dieci anni era venuto in vacanza accanto a dove ora sorge il MONA. La vacanza era con la famiglia e in campeggio – a 40 minuti dalla città dove vivevano, Glenorchy. Rigorosamente a piedi, i suoi non possedevano un’auto.
Il simbolo di MONA è un logo ‘binario’ (+ o -, love or hate) così come binarie sono molte delle opere presenti. Gran parte sono di artisti australiani - il resto degli artisti più importanti del mondo e la maggior parte è site specific, fatti apposta per il museo come vari Delvoye e uno straordinario Turrell che si attiva lungo il tramonto: l’artista americano firma la prossima ala del museo dove Walsh ha in mente di costruire anche un altro hotel e un casino. Unico piccolo problema: il milionario australiano che ha fatto le sue fortune sul gioco – più sento parlare di lui e più penso che sia davvero un genio – odia le macchine da poker, giustamente! Pare che in Australia ci sia una sorta di monopolio e che ogni volta che installi un hotel con licenza di casinò devi avere queste macchine. Allora sarebbe disposto a fare un casinò senza licenza. Lui vuole, licenza o no, un posto aperto, fantastico dove quando non ci sono persone che giocano si possa ospitare altro. Lui, ecco, lo ha detto: vuole un casinò a forma di giardino e senza pokie!
Il museo che vedete oggi si sviluppa su una struttura tentacolare letteralmente scavata nella pietra locale ed ingloba le architetture pre-esistenti dell’isola su cui è situato: tutti edifici vincolati, sono deliziosi cottage in legno costruiti da un famoso architetto locale a cui si ispirano i vari cottage contemporanei ad essi affiancati e tutti in affitto (i pavillions), uno ha anche la piscina privata. Sono stati costruiti dal collezionista ed imprenditore insieme alla nuova architettura.
Accanto alle mostre temporanee (fino al 28 marzo 2016 The Art Exhibtion, di Gilbert&George, in cui preziosi sono i primi, vecchissimi collage che raramente sono mostrati e che risalgono al 1973 ed anche Loved, di Kathy Cavaliere) vi è la collezione permanente, spesso arricchita di nuovi arrivi o di impreviste partenze (per finanziare la nuova ala del museo, pare che Walsh venda ‘qualcosa’).
Una guida in Ipod, si chiama O, aspetta all’ingresso quei visitatori che vogliono veramente comprendere appieno cosa stiano per guardare (non esistono courtesy dei lavori). Funziona con un localizzatore per cui ad ogni refresh, si aggiorna sulle opere che circondano il visitatore proprio in quel dato metro del museo. Ed è realizzata, impeccabile, con un approccio diametralmente opposto a quello di qualsiasi altro museo – pubblico privato o corporate che sia. Tra l’altro, al termine della visita puoi salvare le tue ricerche, spedirle alla tua email e ritornare su quello che hai visto da casa, con il tour salvato e tutte le schede e contenuti multimediali a tua disposizione in remoto (la piattaforma si chiama Enson di Art Processors e pare sia una ennesima company di Walsh).
Ogni opera è commentata, sulla guida O, dai resident writer (Jane Clark ed Elisabeth Pearch) e corredata da una scheda tecnica che spesso include referenze a testi pubblicati in altri libri o cataloghi (per il visitatore che si trova ancora all’interno del museo, un salto in libreria e guida alla mano apre la pagina cartacea del libro! Ma anche all’esterno: si reca in una delle tante librerie pubbliche della città in cui si trova con i file degli artisti che ha precedentemente salvato e sfoglia i libri consigliati dalla guida).
Oltre ad una sezione multimediale (che ospita interviste o brani musicali indicati per l’ascolto in quel particolare punto), ha una sezione a firma ‘Gonzo’ che non è altro che lo pseudonimo di Walsh. Finissimo scrittore, spesso commenta con modi lapidari e spicci (nel caso di una speciale latrina che mostra l’ano di chi evacua – firmata dagli austriaci Gelitin, si trova accanto al Cinema - il commento è stato ‘Gross’) ma in diversi casi è ricchissimo di spunti poetici che partono dall’opera e vanno totalmente altrove, con conseguenza però.
Il Walsh scrittore – imperdibile un suo volume dai risvolti oro, A Bone of Fact, per scoprire tutto della sua vita - prende a prestito spesso sé stesso. Dal corpo, ai non celati appetiti fino alla condizione esistenziale, ai limiti, alle aspirazioni e alle paure – e si mette in gioco.
Carne da macello, verrebbe da dire. Si dà in pasto. Niente male per un mecenate che si è fatto paesaggio, con idee e investimenti, cambiando (e non poco) il corso della sua terra.
Il museo rivoluzione pure il concetto di membership – e naturalmente questo può accadere solo nella terra delle infinite possibilità che è questo strano paese, l’Australia.
Tornando a MONA, lo fa con Eternity Membership. Non è un’installazione di un artista ma un’idea, oltre che una provocazione, del suo inventore: per 75.000 dollari australiani si può comperare la Mona Eternity Membership cioè avere a vita cataloghi, offerte in prevendita (prima il museo era gratis, ora si paga per entrare) oltre che inviti a tutti i party che ospita. Una volta morto, il membro può essere cremato (dal Museo) e riposare in un’urna esposta in una fine bacheca al suo interno. Probabilmente non ci crederete: ci sono già membri a vita. Quindi il cimitero del museo è già operativo.
Molti potrebbero già scioccarsi a questo punto (soprattutto se casualmente sono andati in bagno nella toilette dei Gelitin, a poca distanza da questa ‘membership’) e decidere stupidamente di mollare il colpo, ma tutto è da venire. Infatti, proprio a contrasto sulla roccia, c’è Bit.fall di Julius Popp. Si tratta di una grande cascata d’acqua le cui gocce sono assemblate in forma di parole, di volta in volta prese random dalle news del giorno prima di precipitare al suolo da grande altezza e misteriosamente sparire come sono arrivate.
Varcando un tunnel poco distante (dove confluirà anche l’accesso alla nuova ala del museo), si entra anche in un’opera, firmata da Christopher Townend (musicista e ingegnere) commissionata da Walsh (che in realtà si è occupato della totalità delle opere site-specific) lunga quanto il tunnel stesso, 37 metri. Ci sono 48 casse acustiche costruite all’interno e l’opera si chiama more people=more sound. Nomen Omen, letteralmente: alla presenza delle persone, la musica si attiva ed è programmata a seconda di dove siete nel tunnel (ogni 700mm ci sono delle celle che captano la presenza). Più persone, più suono (e il museo è affollatissimo!). E ovviamente il suono viene amplificato dall’effetto di risonanza proprio del tunnel stesso. In questo periodo dell’anno (in Australia è piena estate e le scuole sono chiuse) pare che il museo raggiunga picchi di oltre 2500 visitatori al giorno ed il curioso traghetto che Walsh ha fatto costruire (total look militare verde kaki) che parte da Hobart e arriva all’isola dove si trova il museo è spesso esaurito: porta più di 350 passeggeri a corsa…
Arriviamo subito al punto, l’opera forse più dissacrante è firmata da Greg Taylor (Cunts…and other conversations, 2008-11) e si tratta di 77 sculture in porcellana che ritraggono, 1:1, le vagine di altrettante donne che si sono prestate a posare per essa (sono tutte persone che l’artista conosce, dai 18 ai 78 anni, di qualsiasi estrazione religiosa musulmana inclusa e di qualsiasi inclinazione sessuale, incluse vergini). Pare ci sia anche la seconda moglie di Walsh. Dalle informazioni rilasciate dall’artista e pubblicate sulla guida ‘tutte queste donne sono accomunate dal volere una sola cosa: essere libere dalla paura, dall’ignoranza e libere di esprimere la propria sessualità.’
I prati del museo sono circondati di luoghi per il riposo o per la contemplazione, in cui comode sedute incorniciano il paesaggio – disseminato di altri segni d’artista o di natura incontaminata (conigli, anatre, galline). E’ facile aspettare il tramonto (mangiando all’ottima caffetteria del posto che serve i vini e le birre rispettivamente prodotti dalla casa vinicola del museo, Moorilla, e dalla birreria, Moo) per vedere l’opera di Turrell in azione. Ovviamente c’è anche un ristorante e una cantina molto più costosi per il pubblico più ricco.
Molti visitatori vengono al MONA anche quando il museo è chiuso, non fanno che riposare nel parco o assistere allo spettacolo di luce offerto da Turrell (l’installazione è incastonata in un brano straordinario della baia dell’isola ed il contrasto tra il cielo ed i colori della terra aumenta l’effetto cromatico della variazione di luce). Il pubblico che arriva per Turrell è tra i più diversi: coppie di ogni età ma anche persone sole che si avvolgono in una coperta (anche d’estate in Tasmania il vento spira imperturbabile e per lo più freddo) e si sdraiano sulle grandi panche che completano l’opera (sono tutte riscaldate che è un piacere). Ci sono stata e mi è piaciuto immaginare che una di quelle coppie che come me si è goduta l’intera evoluzione cromatica dormisse in uno dei cottage e si fosse segnata in agenda il momento speciale per arrivare puntuale.
Ci sono anche iniziative con le università del paese od ong specializzate in eco-discipline, come Heavy Metal, un progetto scientifico (e un festival musicale) che ha messo insieme oltre 60 scienziati delle primarie istituzioni mondiali (guidato dalla Monash University) per trovare una soluzione adatta a disinquinare dai metalli pesanti il fiume prospiciente il museo, il Derwent, che pare sia il sito più inquinato al mondo, persino di più del porto di New York o del Tamigi, a causa dello scarico incontrollato di zinco da una fabbrica poco distante nel corso degli scorsi anni.
Specialmente per questo museo, è inutile dirvi chi c’è e chi non c’è: fareste prima a fare un gioco e tirare fuori un nome a caso, famoso ed inarrivabile, dell’arte contemporanea, fare un giro in rete e vedrete che ci sarà (nella quasi totalità con opere che ha solo questo museo).
La sorpresa è invece scoprire i tanti artisti australiani e neo-zelandesi che altrimenti non conosceremmo perché non sono ancora stati in Europa o Stati Uniti (tra i miei preferiti, la designer Pippa Dickson con One…Another panchine/rifugio e l’artista Juz Kitson -1987, Sydney - con le sue straordinarie sculture in porcellana, cera ed altri materiali comprate da Walsh quando ancora studiava). E capire che venire qui non è solo per un paio d’ore. Potrebbe essere per giorni.
Terminata la visita, di proposito non ho messo nessun commento alle opere sulla guida multimediale (il commento può essere solo lapidario come lapidario è tutto l’assunto di questo museo: appunto, love/hate). Ogni commento viene processato, così come il tempo che passiamo accanto ad un’opera, quante volte la guardiamo, quanto leggiamo (e cosa).
Walsh guarda noi? Di sicuro – sia dal suo salotto dall’alto in basso sia, su carta, dai report statistici che rilasciamo tutte le volte. Ma noi guardiamo il suo ‘io’ in pasto, del pari.
Di sicuro questo posto se lo godono molto di più quelli che sono abituati a pensare – e a pensare molto ed in profondo senza fretta.
Ah, ve l’avevo già detto? Questo posto è nella mia top five di luoghi imperdibili sul pianeta terra.