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Axelle de Buffévent: una conversazione con un mecenate nel design
La champagne house francese Perrier-Jouet sponsorizza progetti di vetro dal sapore Art Nouveau
Finita la stagione delle fiere internazionali dell’inverno 2013 (e prima che comincino le maggiori della primavera 2014), siamo riusciti a conversare con Axelle de Buffévent il direttore stile della famosa casa di champagne Martell Mumm Perrier-Jouët. Molti sarebbero potuti essere i temi su cui dibattere, ma ci siamo concentrate soprattutto su un filo conduttore: il design ed il ruolo dei nuovi mecenati nella diffusione del bello.
Con una formazione in storia dell’arte, Axelle de Buffévent ha lavorato a lungo nel mondo del design ma il ruolo che ricopre dal 2011 nella maison di champagne è stato creato apposta per lei: si occupa dello stile e della comunicazione visiva di tre brand e, da sola, di un programma di sponsorizzazioni e commissioni nel mondo del design contemporaneo che privilegiano da un lato Design Miami (fino al 2015) e dall’altro la ricerca di progetti speciali (dal packaging ad una differente champagne experience) tutto l’anno.
Così, il circondarsi di bellezza (ovunque, anche nei posti che abitiamo) e lasciare che lo spirito dell’Art Noveau diventi qualcosa di vivo ed esperito sono due dei nuovi e distintivi trend del marchio Perrier-Jouët (fondato nel 1811) anche perché tutto nacque, nella storia di questa azienda, da commissioni di arte applicate a circa un secolo dalla sua fondazione - quando si era nel bel mezzo di questa esperienza artistica, ed il primo ad essere chiamato a disegnare per la maison fu l’artista Emile Gallé, autore dell’anemone, il fiore che ancora è nel marchio e nell’inspirational della maison.
Nel 2012, quasi un secolo dopo quella prima commissione, Perrier-Jouët ha chiesto al duo anglo-olandese Studio Glithero di ideare un’installazione capace di raccontare (attraverso la loro interpretazione) l’eredità della compagnia e l’output è risultato uno dei pezzi più commentati della versione americana della fiera svizzera, la più importante dedicata al design da collezione. Quest’anno la maison ha chiesto al designer olandese Simon Heijdens (1978) di fare lo stesso: si è inventato un’installazione di luce del pari mostrata a Design Miami in anteprima. Phare no. 1-9, questo il titolo del lavoro, si compone di “nove contenitori di vetro soffiato che raccontano, disegnano una storia usando una tecnologia autoriale, sviluppata proprio per quest’occasione e capace di creare disegni in mezzo all’acqua contenuta nelle giare sospese. Usando le qualità dimensionali dell’acqua, e le sue proprietà di rifrazione della luce, le Phares diventano come lenti che proiettano nell’ambiente circostante (bianco, per l’occasione a Miami, ndr) le dissolvenze e le apparenze (di tracce rosa, ndr) presenti nell’acqua.”
Diana Marrone: Perrier-Jouët ed il design contemporaneo: una serie di commissioni speciali, che si perdono nell’inizio del secolo scorso ed arrivano fino ad oggi: molto è cambiato nelle arti applicate e tuttavia la Maison sembra ancora scommettere sul design puro e non sul più “modaiolo” mondo dell’arte così come invece hanno scelto di fare molti competitor. Forse la ragione risiede nella relazione magica che s’instaura dando un brief su un’eredità culturale piuttosto che su quella “impossibile” libertà che sembra puntellare il mondo dell’arte, almeno quello che si scrive con la A maiuscola?
Axelle de Buffévent: “Due sono le ragioni, essenzialmente. La prima è che vogliamo restare ciò che siamo ed essere lì da dove veniamo. Siamo una piccola casa produttrice di champagne e vogliamo lavorare con coloro i quali si dimensionano bene con il nostro perimetro e lo rispettano. Siamo molto lontani dall’approccio di altre compagnie quando instaurano partnership con artisti giusto per il gusto di mostrare e fare comunicazione. Per noi è molto più importante creare contenuti che parlarne, ed essere sicuri che siamo in grado di consegnare qualcosa alle generazioni future – così come le precedenti hanno fatto con noi. Abbiamo una straordinaria eredità e vogliamo essere sicuri di tenerla viva.
Certo, c’è un brief all’inizio perché vogliamo essere sicuri di restare nel nostro solco. L’Art Noveau fiorì all’inizio del XX° secolo come risposta all’industrializzazione di massa e molti dei designer con cui lavoriamo sono molto “art noveau” nei pensieri e nella filosofia di produzione, nel modo in cui sono ispirati dalla natura e dalle sue profezie e soprattutto circa l’uso di lavorazioni artigianali. Molti degli studi con cui lavoriamo sono, ecco, dei veri e propri “studi”, non molto industrializzati e se lo sono, in una misura soffice.
DM:…certo, ma molto edotti in fatto di tecnologia, se consideriamo la vostra ultima installazione!
AdB: Sì, allo stesso tempo sì (ride, ndr)! Quel che ci interessa, anche, è testimoniare che l’artigianalità non sia qualcosa che ha solo a che fare con il passato: puoi produrre tailor-made anche con la tecnologia, oggi. Non c’è quindi un aut-aut tra queste posizioni, qui si tratta solo di qualcosa che spinge l’Art Noveau nel XXI° secolo!
DM: Più in generale, un grande brand come Pernod Ricard, di cui la Maison è parte, lavora con il design anche per lanciare altri brand ma il modo in cui agisce il suo, è assolutamente più netto, diretto e assolutamente focalizzato sulla qualità assoluta ed in particolare su quella tattile del vetro (interpretato in chiave contemporanea). Che tipo di sforzi significa per il suo ruolo? Lavora con advisor o sceglie personalmente i designer? Quali i criteri (una proposta diretta, inviti multipli per rispondere al brief e poi scelta finale tra quelli ricevuti?)
AdB: Abbiamo modi differenti per commissionare design contemporaneo. Per Design Miami (il brand sponsorizza la fiera per il triennio 2012/2015: a Basilea come champagne partner ufficiale, a Miami anche con la mostra di installazioni site-specific commissionate ad uno studio di design ndr) abbiamo una giuria molto ristretta composta da persone influenti del mondo del design (chi viene dall’università, chi dal mondo delle pr, etc). Io ed i componenti ci incontriamo e ci confrontiamo ciascuno con una serie di nomi che discutiamo per circa due mesi. Dopo, scegliamo due studi, mandiamo loro un brief e otteniamo due proposte, quindi io ne scelgo una (e quindi sceglie lo studio, ndr). Da quel momento in poi, sono l’unica ad occuparmi del progetto, dalla relazione con il designer fino all’installazione, al 100%. Significa, praticamente, viaggiare ogni tre settimane per visitare gli avanzamenti nello studio del designer, sentirsi telefonicamente una volta a settimana per vedere come vanno le cose (mentre ovviamente, sovraintendo al resto del mio lavoro: puoi capire quindi che un progetto all’anno – ben fatto – è meglio di due fatti così e così!).
Non facciamo solo design per Miami; per tutti gli altri progetti della maison, ad esempio per The Enchanting Tree realizzato con Studio Tord Boontje, il nostro team di marketing mi consegna un brief, una sorta di concept che vorrebbero sviluppare e a partire da quello mi occupo di scegliere l’attore creativo adatto (in questo caso potrebbe essere non solo un designer ma anche un grafico, un fotografo o un direttore artistico). Dipende molto dalla forma del progetto: sono sempre io comunque a introdurre la forza creativa e a curare la relazione con la persona! C’è tanto lavoro, devo dire, ma è fantastico ed eccitante (ride ancora ndr)!
DM: Mi piacerebbe sapere quale è stata l’installazione più significativa per lei ed in termini di interesse di pubblico sino ad ora e quale budget medio la maison impiega per la produzione, se è possibile comunicarlo?
AdB: E’ molto difficile dire quale sia stata la più significativa date sole due edizioni di Design Miami a cui abbiamo partecipato. Entrambe sono state straordinarie. Credo, però, che in termini di audience il pezzo che ha avuto molta più presa sul pubblico (e maggiore esposizione fino ad oggi) è stato quello di Boontje, The Enchanting Tree: anche perché è così funzionale alla degustazione dello champagne che moltissime persone lo hanno provato! E’ stato esposto a Londra (Saatchi Gallery), poi ad Hong-Kong, in Cina, a Miami, in Svizzera. Ha viaggiato anche abbastanza in Francia, poi in Giappone. I budget: dipendono così tanto dal tipo di progetto (che può andare dal packaging ad un’installazione a Miami) che non mi sento in grado di parlarne, ad essere onesta. Mi spiace.
DM: “Dove vanno le commissioni annuali di Miami e potreste chiamare lo stesso designer che avete scelto per la fiera per disegnare packaging speciali o edizioni od oggetti per la degustazione per i vostri cuvée o brut? Di chi sono le installazioni, restano ai designer oppure alla compagnia? Possono essere vendute oppure ri-create in una edizione multipla? E’ forse un “museo” la risposta migliore quando il numero delle opere aumenterà?
AdB: Tutte le nostre commissioni per Design Miami appartengono a noi e sono pensate solo per allargare la nostra collezione di pezzi d’arte. Non so se hai avuto già la possibilità di visitare la nostra casa di Epernay (la incredibile magione della compagnia, creata dai fondatori, con oltre 200 pezzi di Art Noveau: è stata recentemente riaperta dopo otto anni di restauri e ora è una guesthouse di lusso ndr).
DM: Non ancora!
AdB: Fallo presto perché è molto, molto ricca di ispirazione! Non è aperta al pubblico ma solo a chi viene invitato. E contiene la più grande collezione privata di questo tipo in Francia e per noi non è mai stata un museo, spero potrai vedere presto perché. E’ una casa vera e propria. Chi ha una chance di ricevere un invito, siederà su una sedia di Majorelle o dormirà in un letto di Guimard, provando ognuno dei pezzi che per noi sono la vita quotidiana. E vogliamo resti così, un’esperienza domestica e non un museo, perché noi siamo un marchio per la casa. L’idea dei pezzi per la fiera Design Miami è nata per allargare la collezione, come ti dicevo. Divengono quindi parte della casa ed i designer autori, finita la fiera, scelgono dove metterli (e quando sono scelti per disegnare l’installazione, vengono invitati a visitare la casa e le cantine per trovare l’ispirazione giusta ndr). Per esempio, Studio Glithero ha scelto le cantine ed il loro pezzo ora è lì: quando le visiterai sarai sorpresa per come ti verrà incontro (Lost Time è una installazione che gioca sulla luce e sulle percezioni: fatta di una infinita teoria di collanine in proporzioni gigantesche che si rispecchiano in una piscina, è immersa in uno spazio poco luminoso. Citazione al modo in cui Gaudì disegno gli archi impossibili che danno vita alla celebre Sagrada Familia – una corda con un peso – questi grandi nastri di perline si curvano e si specchiano nella piscina sottostante creando anche un effetto simile alle bolle di champagne ndr).
DM: Il design contemporaneo mi sembra oggi l’unità di rigenerazione di brand più innovativa e propulsiva ma i nomi che firmano la maggior parte dei deal sono sempre gli stessi, da una nuova lobby di hotel al layout di una fiera fino ai vincitori di un premio: al contrario Perrier-Jouët sembra mostrare una buona dose di “pensiero laterale” nel non scegliere sempre i soliti. Mi spiegava già di come fate talent scouting e del ruolo della giuria. Ma, di nuovo, è la qualità della risposta al brief che vi guida unicamente? Per esempio Boontje è già famoso e consolidato ma Glithero e Simon Hejdings mi sembrano venire da un buzz differente, anche se si tratta – anche qui – di autori molto qualificati!
AdB: Con Design Miami vogliamo offrire una piattaforma a giovani designer quindi non sceglierei per questa fiera un “grande”: ci sono un sacco di talenti in questo campo che chiedono soltanto una possibilità e la giusta visibilità internazionale. Con quest’operazione desideriamo dare loro un’opportunità qualificata perché lo studio cresca. I Glithero, dopo Design Miami con noi, ad esempio, hanno trasferito lo studio in uno spazio più grande ed hanno anche ampliato il loro team! Vogliamo aiutare giovani designer a crescere in un certo modo e penso questo accadrà anche con Simon! Design Miami ci aiuta a mostrare al mondo l’impatto, ancora vivissimo, dell’Art Noveau e ci aiuta a dare ai suoi nuovi attori una gran apertura sul mondo (ecco perché non avremo mai un grande nome qui). Anche quando verremmo fuori con un “nome” per altri grandi progetti (a parte Miami), questo non sarà l’unico drive per me: resta sempre la sua filosofia di creazione ed il suo modo di rapportarsi a cos’è Perrier-Jouët, deve essere ispirato dalla natura, dalla produzione artigianale, deve portare bellezza nella vita quotidiana e deve essere in grado di portare l’Art Noveau nel XXI° secolo.
DM: Solo le fiere di design da collezione sono interessanti per il vostro brand oppure c’è qualcosa di interessante anche alla settimana del Mobile di Milano?
AdB: Oggi per noi l’interesse principale è, letteralmente, declinato nella famiglia allargata delle arti applicate; ci piacerebbe essere coinvolti nella fiera milanese ma dobbiamo ancora capire come. Ci sono oltre 600 eventi in una sola settimana oltre che tanti momenti privati; sarebbe assai difficile emergere come marchio nel mezzo di tutto questo ma ovviamente l’Italia è per noi una grande piattaforma di design, non possiamo sfuggirla! Stiamo ancora capendo come fare.